Irene (Margherita Buy) bionda, minuta, carina, sui quaranta, tailleur griffati e tacchi 12, trolley e 24 ore sempre in mano, ha l’aria di chi sa cosa fa senza per questo darsi arie, vive tra un aeroporto e l’altro, sbarca in incognito in hotel a cinque stelle, ne controlla gli standard, scrive i suoi report, bacchetta qualche direttore e va via. Nessuna tragedia al suo passaggio, Irene non è l’Angelo sterminatore, è solo una lavoratrice precaria ben pagata che fa l’ispettrice per conto terzi. Berlino o Marrakech, Shangai o il Salento, dovunque è la sua non casa di lusso, dovunque tranne che nella sua vera casa, fredda, monacale, zona neutra di passaggio tra un viaggio e l’altro.
Residui della sua vita sono una sorella (Fabrizia Sacchi), casalinga un po’ stralunata e impositiva, due nipotine che l’adorano ma, al momento giusto, vogliono la mamma, un cognato (Gianmarco Tognazzi) che fa l’orchestrale, gioca compulsivamente a Farmville su facebook e a letto preferisce leggere. Per finire, un ex di antica data, ora amico, Andrea (Stefano Accorsi), venditore di ortaggi bio, umanamente irrealizzato quanto basta per essere il classico maschio di cui non si sentirà la mancanza in nessun momento della propria vita.
Questo il mondo che Irene lascia ogni volta che s’imbarca. Una vita, la sua, che sembra la copia di un originale mai esistito.
Costeggia il bello, sfiora il sublime, ma è solo un gioco di specchi, un’esibizione da palcoscenico di un lusso falso, come le dice l’antropologa sessuologa (una magnetica Lesley Manville) conosciuta nella sauna di una spa a Berlino, dove Irene ha una camera con vista sulla Porta di Brandeburgo. Nulla che possa competere con la prorompente vitalità della trattoria turca dove la simpatica antropologa l’invita, ma dove Irene si ritroverà da sola a mangiar kebab.
Una regia attenta fa muovere Irene con la giusta misura, la Buy dà una buona prova, vive la parte con partecipazione sensibile, ci restituisce un personaggio reale e metafora insieme, un modello femminile che si cala nella modernità con i suoi connotati millenari, solo tarati per essere al passo coi tempi. La condizione di solitudine e marginalità dalla vita di chiunque, a partire dalla sua, è il retrogusto amaro che sale piano in superficie, mentre un incontro dopo l’altro sfuma nell’effimero, perché le favole sono favole e questa è vita vera.
Irene lo sa, la vita non si sceglie ma si può domare, ed è quello che fa dopo un momento molto umano di crisi. Traballa solo per un attimo, Irene, poi torna in piedi, dritta sui suoi tacchi 12, e riparte per annusare la fragranza della biancheria da bagno, sollevar lenzuola, scorrere col dito in cerca di polvere, scrutare attenta i camerieri, misurare la temperatura del potage, calcolare al cronometro il tempo di attesa alla reception.
Donna pratica, autoironica, in camera scriverà l’ennesimo dei capitoli tutti uguali del suo “romanzo”, cambierà solo l’indirizzo dell’hotel.
Quel Viaggio sola del titolo poteva prendere qualsiasi destinazione, virare al dramma strappalacrime o alla commedia sentimentale, diventare satira di costume, farsa, tragedia.
Prende invece la strada più normale, forse la più giusta, quella della constatazione: io viaggio sola, questa è la mia vita, mi piaccia o no non la sto subendo da martire né faccio l’eroina di cartapesta. Potrebbe chiamarsi “aurea mediocritas” questa? Forse, ogni tempo ha la mediocrità che merita.