sabato, Novembre 2, 2024

Iron Man 3 di Shane Black

Forse perché è consuetudine, di questi tempi, concludere una saga supereroica con accenti cupi, in molti si aspettavano un adeguamento alla tendenza in corso anche dell’ultimo Iron Man. Non è così, anzi, al contrario, il passaggio di testimone da Jon Favreau (alla redini dei due capitoli precedenti) a Shane Black (sceneggiatore di Arma Letale, Last Action Hero, e regista di Kiss Kiss, Bang Bang) ha favorito l’apoteosi, a tutti i livelli, del più disimpegnato ed edificante Disney Style. Al tempo stesso, il terzo appuntamento con Tony Stark (Robert Downey Jr.) ha indubbiamente una qualità che non è più scontata nel genere supereroico (ne sa qualcosa il Nolan velleitario e ideologicamente confuso di Il cavaliere oscuro – il ritorno), ovvero l’onestà. Iron Man 3 non finge di essere quello che non è: svolge la sua funzione di macchina da sollazzo e niente di più.

Già nel secondo episodio, il carattere di istrionico e vorace viveur di Tony Stark andava scemando, al fine di rendere più credibile il suo legame con l’ex segretaria Pepper (Gwineth Paltrow), immancabilmente al fianco del nostro sia nei trionfi che nelle cadute. Svolta che viene ulteriormente rafforzata in Iron Man 3, dove l’avventura di materasso con la biologa Maya Hansen è strategicamente posizionata nel lontano 1999, con l’aggiunta che il personaggio, interpretato (male) da Rebecca Hall, è nientemeno che una infida doppiogiochista al soldo del villain Aldrich Killian (Guy Pearce), la quale procurerà non poche grane al supereroe plurimiliardario. Insomma, una bacchettata in piena regola a tutto quel che più divertiva del protagonista. E spunta perfino un bambino a dare man forte a Tony, in una delle svariate false piste messe a mo’ di riempitivo, la cui presenza sottolinea la necessità di un passaggio dalla condizione di Figlio – vedi i complessi irrisolti con l’immagine irraggiungibile del padre in Iron Man 2 – a quella di Padre. Ma non è la sola “sorpresa” di questa sfilacciata sceneggiatura (ispirata alla serie Extremis del 2005), perché la licenza con cui viene reinventato di sana pianta – e in chiave comica – il nemico storico di Stark, Il Mandarino (Ben Kingsley), è probabilmente la più eclatante del film. L’effetto comico è ricercato insistentemente – altra nota che ribadisce il dirottamento di target verso i più piccoli – e lo si coglie fin dalle prime scene, con la gag slapstick della vestizione dell’armatura, a cui si accoda, proseguendo, un profluvio di irrisioni delle scene madri in cui solitamente ci si attende un’esaltazione delle gesta del paladino di turno.

E nel frattempo, Stark, che è preda di attacchi di panico “post Avengers”, matura il desiderio di infrangere la simbiosi con la sua rutilante corazza ipertecnologica (evidenziato anche dal “distacco” del pilotaggio a distanza, tramite Jarvis, dell’armatura Mark 42), di togliersi l’elettromagnete applicato al cuore, e di farsi finalmente e nuovamente uomo. Il fulcro dello spettacolo, ovvero gli scontri fra i macchinari di Stark e i guerrieri potenziati dal tecnovirus Estremis, potranno anche abbagliare le retine con gli ultimi upgrade della CG, ma sono architettati secondo un’ingenuità fracassona che comunque non sconfina mai nello stucchevole.

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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