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Jennifer’s Body – di Karyn Kusama: la recensione

Karyn Kusama arricchisce la sua galleria di corpi mostruosi con quello di Jennifer, ma tra i pezzi a disposizione è in realtà la bocca di Megan Fox che le interessa in modo particolare; il corpo, nel film scritto da Diablo Cody, è un’illusoria manifestazione del desiderio; se lo script di Juno era focalizzato sulla trasformazione del corpo adolescenziale secondo una prospettiva ambigua, quì è l’immagine del nutrimento orale più estremo che riconfigura quell’idea secondo un’ipotesi primordiale.

In questo senso, il film della Kusama procede per piccoli spostamenti, sostituzioni abilissime e scomposizioni terroristiche di un immaginario marcatamente pop. Se c’è un limite, è proprio nell’enunciazione esasperata del gioco teorico-narrativo, versione playful e adattata al linguaggio di una qualsiasi Twilight Saga delle invenzioni teoriche di Barbara Creed, tanto per citare una delle fonti ben radicate in chi, come presumibilmente la Cody, ha fatto una dieta a base di Women’s Studies.

L’abiezione, la vagina dentata, la dissoluzione del concetto di identità, le icone rovesciate del mostruoso femminino prelevate dal digest tutto sommato innocuo di Diablo Cody, dietro l’occhio visionario di Karyn Kusama diventano immagini di pura astrazione popolare; a quel piccolo miracolo geometrico e al contempo, impalpabile, che era Aeon Flux si sostituisce la posturalità scultorea e lumininosissima di un “pop” quasi Hockneyano; un frullatore ferocissimo che fa a pezzi l’estetica indie più sputtanata smarginando la narrazione in un movimento errabondo tra set e spazi incongrui.

Il corpo di Jennifer è un fantasma che attraversa una versione colorizzata degli spazi di luce alla Val Lewton, la propensione al numero musicale di Paul Thomas Anderson, gli anni ’80 di Heathers, film “petardo” più che dinamitardo, in fondo cosi vicino alle conseguenze del peggior post-moderno immaginato da Stephenie Meyer.

La persistenza di questa esuberanza iconica che assorbe qualsiasi tentativo didascalico in un’immagine possente e senza pietà di una generazione cresciuta nell’equivoco storico tra “visivo” e “visione” si riflette nella bocca di Megan Fox, quasi un saggio iconografico sulla sua immagine; non solo il vomito mostruoso, le fauci cannibali, il bacio lesbo e tutto il campionario di banalità pruriginose, ma soprattutto il posing da FHM, la lingua bruciata dall’accendino, presenza che la Kusama sottolinea fortemente quasi a delinearne l’esatto contrario, una traumatica sconnessione con lo spazio e il tempo, la stessa che mette il brano delle Hole che da il titolo al film contro gli stop frame della rock band massacrata; l’immagine con-tro il testo. Diablo Cody e Karyn Kusama; preferiamo la seconda.

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