lunedì, Novembre 25, 2024

Jud Süss – Film ohne Gewissen di Oskar Roehler – Berlinale 60 – Concorso

Battutona numero uno. “Che differenza c’è tra il cristianesimo e il nazionalsocialismo? Nel cristianesimo uno solo muore per tutti, nel nazionalsocialismo tutti muoiono per uno solo!”
Battutona numero due. “Himmler, sul letto di morte, si converte all’ebraismo. Quando gli chiedono perché, risponde: Un ebreo in meno”.
Queste perle di eburneo umorismo risuonano nella sceneggiatura a firma Klaus Richter. Il signor Richter ha acchiappato a mani nude il nido di vespe più brulicante della storia del cinema tedesco, e ha stretto. Forte. Il risultato, dopo otto anni di peregrinazioni da produttore a produttore, è Jud Süss – Film ohne Gewissen (‘film senza scrupoli’), la storia abbastanza vera del film di propaganda più subdolo di tutti i tempi e del suo attore principale, Ferdinand Marian.

Abbastanza vera perché Oskar Roehler, una volta adottato il progetto, ha voluto virarlo al melò grottesco, un genere che gli è particolarmente congeniale. Roehler, figlio di scrittori (Klaus Roehler e la celebre Gisela Elsner, a cui ha dedicato il premiatissimo Die Unberührbare, 2000), si è fatto conoscere negli anni Novanta con alcuni titoli tra il pulp, la neonouvellevague e il videoclip (Gentleman, 1995; Silverster Countdown, 1997) mentre in tempi recenti ha portato sullo schermo Houellebecq (Le particelle elementari, 2006) e ha rifatto, ufficiosamente, Cuore selvaggio ambientandolo nella Germania bacchettona del boom economico (Lulu & Jimi, 2008). Il suo prossimo, umile progetto è il Faust, con Moritz Bleibtreu nei panni di Mephisto. Da questo punto di vista, Jud Süss – Film ohne Gewissen ha tutta l’aria di una prova generale in tema di diavolerie e anime vendute al diavolo.

Abbastanza vera la storia, dicevamo, perché il film ondeggia tra la ricostruzione meticolosa – i brani del film rigirati per filo e per segno – e l’approssimazione fantasiosa – una per tutte: la morte di Marian, descritta nei termini del suicidio. Richter sostiene una tesi ben precisa, ovvero che Marian sia una figura tragica e che uomini e donne come lui abbiano pagato al posto di soggetti come il regista Veit Harlan, denazificato con successo e morto di morte naturale nel 1964 dopo aver calcato il set anche nel dopoguerra. Peccato che il film non ci informi che dopo Jud Süss la carriera di Marian non giunse affatto a uno stop e che la sua disperazione è puro costrutto filmico, ingranaggio da melodramma. Una volta appurato questo è un po’ difficile credere alla storia e appassionarvisi, poiché non si sa più cosa è autentico e cosa è montato più della panna. Di vero c’è, ad esempio, che il film del 1940 è stato visto da 20 milioni di spettatori in tutta Europa prima di essere bandito nel 1945.

Tobias “Il commissario Rex” Moretti interpreta Marian, attore in ascesa e laido casanova. Un bel giorno Goebbels (Bleibtreu) e Harlan (Justus von Dohnányi) gli fanno visita mentre recita Jago in compagnia dell’attore ebreo Adolf Deutscher (Heribert Sasse). L’occasione è ghiotta per interdire Deutscher da ogni palcoscenico del Reich – in quanto ebreo – e per preparare l’ignaro Marian a un’offerta che non potrà rifiutare. Allo scoccare della mezzanotte del capodanno 1940 il dottor Goebbels in persona chiama Marian e lo informa di un progetto urgente. Marian ribatte che ha un impegno pregresso col regista Erich Engel, ma il ministro della Propaganda lo zittisce col sorriso e due parole lapidarie. Engel può aspettare.

Il retroscena della vicenda, su cui il film sorvola, è che nel 1939, a guerra iniziata, Hitler s’incaponì per produrre a tutti i costi un “vero film nazionalsocialista”. Evidentemente non pago dei documentari della Riefenstahl, il Führer voleva un film narrativo che esulasse dal solito mainstream di puro intrattenimento, cioè dai film di avventura, dai melodrammi con Zarah Leander e dalle operette viennesi che andavano tanto in voga a quei tempi. Goebbels si mette subito al lavoro e ordina a Harlan di girare “un film artistico, non la solita propaganda da due soldi”. Insieme, i due architettano la trama di un apologo in costume ambientato a Stoccarda, dove un affarista giudeo ne combina di cotte di crude e finisce giustiziato dalla folla inferocita. Poi trovano il protagonista ideale: un attore che può sembrare ebreo e che non può dire di no, visto che sua moglie Anna (Martina Gedeck) è “ebrea almeno per un quarto”. Un attore ricattabile.

Detto fatto. Superate le iniziali resistenze di Marian, il film si fa e viene presentato al festival di Venezia, dove incassa applausi e lodi sperticate tra cui quella del giovane critico Michelangelo Antonioni, che su «Cinema» spese buone parola sulla sottigliezza della recitazione di Marian. Fatto vero e verificabile. L’attore principale viene costretto a seguire il film in una lunga campagna promozionale in Polonia, tra un cinema e un accampamento militare accanto al quale stanno erigendo un lager. Dopo l’ennesimo dissapore tra Marian e Goebbels – stavolta di natura femminina… – Anna viene portata via e l’attore resta solo e prigioniero del suo personaggio finché, a guerra conclusa, quando viene a sapere della morte di lei in un campo di concentramento alza il gomito per l’ultima volta e si schianta contro un albero.

Jud Süss – Film ohne Gewissen ha delle buone frecce al proprio arco. Prima di tutto gli attori, a cominciare da un Bleibtreu credibilissimo nei panni del diavolo zoppo che cammina come il Keyser Söze dei Soliti sospetti e sbraita che è una meraviglia. In seconda battuta, Roehler – detto anche il Jarvis Cocker del cinema tedesco vista la somiglianza mostruosa – racconta molto bene questa storia di nazismo e celluloide ambientata nei salotti buoni e nelle sale di proiezione, che se fosse uscita prima di Bastardi senza gloria avrebbe qualche merito in più nel trattamento della materia. Lynchiano di ferro, Roehler mette in scena un provino farlocco per Marian, costretto a pronunciare una sola frase (“Il Würrtemberg è ricco”), un provino che per stessa ammissione del regista vuole ricreare l’atmosfera di minaccia dell’audizione di Mulholland Drive. È sempre Roehler, infine, a sottolineare quanto di Arancia meccanica ci sia nella costrizione di Marian a vedere e riveder(si in) un film che odia, mentre il pubblico attorno a lui cade puntualmente nella trappola tesa da Harlan.

Di negativo il film ha una grettezza di fondo che a volte va oltre il grottesco consentito, soprattutto in un paio di scene di sesso, oltre all’ambiguità che abbiamo già menzionato. Non basta l’arma del melodramma a far tornare i conti e a sospendere l’incredulità. Non quando si tocca un argomento del genere. Se non si capisce più quale dei due film – quello del 1940 e quello del 2010 – è senza scrupoli, allora qui abbiamo un problemino.

P.S. Fa sorridere la compresenza di due cartelloni in giro per Berlino: questo Film ohne Gewissen e un altro sottotitolo, il Cop ohne Gewissen (‘sbirro senza scrupoli’) del Cattivo tenente a marca Herzog.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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