lunedì, Dicembre 23, 2024

L’illusionista di Sylvain Chomet (Francia, 2010)

Trenta pagine. Un romanzetto. Sylvain Chomet deve aver sbarrato gli occhioni quando ebbe l’occasione di sfogliare un testo inedito di Jacques Tati, appunti in forma in prosa per un film da farsi o forse no. La storia di un mago attempato che sbarca il lunario ai tempi del tramonto del music hall, lo stesso mondo che Tati aveva abbandonato per il cinema. Forte del credito ottenuto col mediometraggio animato La vieille dame et les pigeons (2002) e col suo primo lungometraggio Appuntamento a Belleville (2003), il regista non ha avuto dubbi su quello che sarebbe stato il suo prossimo progetto. Che ora, dopo una lavorazione faticosissima, è pronto per uscire in sala.

Diciamo subito che sulla carta L’illusioniste è un oggetto del desiderio per ogni cinefilo di questo mondo. Chi ama il cinema animato di Chomet, orgogliosamente 2D e fuori moda, avaro di parole ma ricco di suoni e piccoli gesti inconsulti, sa bene quanto sia figlio di Tati. Ebbene, questo film è ambientato nel 1959, quando al cinema c’era Mio zio, e il protagonista, il mago allampanato e anzianotto, è Tati. Come lui non parla se non per emettere suoni ininfluenti, come lui avanza goffo e impuntato, con le braccia tese e i pugni a mo’ di razzi propulsori, di lui ha la corporatura, i tratti del viso e il nome. “Tatischeff”, si legge sul suo poster da mago. L’illusioniste è un film di Tati in forma di cartone animato. Un film inedito.

La trama vede il prestigiatore lasciare Parigi alla volta del Regno Unito, esibirsi in un villaggio delle Highlands lo stesso giorno in cui arriva la luce elettrica e infine trasferirsi a Edinburgo in compagnia di una ragazzina vogliosa di abbandonare la periferia per la grande città. Tatischeff si arrangia come può per sopravvivere e fare felice questa sua figlia adottiva, senza grande successo. Il mago parte e lei resta tra le braccia di un ragazzone.

I primi venti minuti dell’Illusioniste fanno il miracolo e ci consegnano un film di Tati raccontato dal suo “figlio adottivo” secondo lo stile dei cartoon fine anni Cinquanta, con Tati in scena e i suoni, le situazioni, i dettagli geniali del miglior Tati. Poi, purtroppo, il ritmo si cheta e l’umore dominante è una malinconia un po’ grigia, quasi si stesse assistendo a un sogno a occhi aperti fatto da un uomo che sa di dover timbrare il cartellino. “Magicians do not exist” recita il messaggio d’addio di Tatischeff alla ragazza. Un appello a tenere i piedi per terra e a fare i conti con una realtà ben poco poetica.

Chomet sostiene di essersi attenuto fedelmente al testo di Tati, che il film porta sullo schermo “all’80%”. A fronte della pochezza della sceneggiatura, è possibile che Chomet e la sua troupe si siano lasciati andare a un eccesso di rispetto filologico. Un esempio per tutti: senza pretendere i fuochi d’artificio di Belleville, all’Illusioniste manca una grande sequenza finale, e altri momenti potenzialmente appetitosi – la scena nel garage, o quando Tatischeff entra nel cinema dove proiettano Mio zio – non sono altro che sketch appena abbozzati. Occasioni perdute. Non bastano il gaelico della ragazza, il caratteraccio del “coniglio nel cappello” e la doppia apparizione del gruppo pre-beatlesiano Billy Boy and the Brittoons a risollevare le sorti di un film magico per natura ma privo di momenti magici. Discrete trovate come i lavori “moderni” rimediati del mago (le esibizioni in vetrina, il coordinamento dei pittori trapezisti) restano meno impresse della depressione dei suoi colleghi saltimbanchi, ubriachi cronici e in vena di togliersi la vita. L’illusioniste diventa così un racconto più mesto che fantasioso, un biscottatino muffo intinto nella nostalgia.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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