Fede Alvarez, nato a Montevideo, prima di lavorare al suo primo lungometraggio dirige tre corti, tra cui quel Ataque de Pánico! che nel 2009 diventa un piccolo fenomeno virale. Girato per le strade della sua città natale con un budget sotto i 500 dollari, concentra in pochi minuti il momento apicale di un’invasione aliena sulla terra, riducendo a zero il dispositivo narrativo e lavorando maggiormente sulla tempesta sensoriale. Sam Raimi lo vede, ne rimane colpito e lo mette sotto contratto per la sua Ghost House picture, cominciando ad ipotizzare una versione reloaded della saga Evil Dead a partire dalle sue radici.
Bruce Campbell produce insieme allo stesso Raimi, e almeno in una fase iniziale, Bob Morawski viene annunciato come nome possibile per il montaggio. Di fatto, l’unico che manca all’appello è proprio il fedele montatore di Raimi da Army of Darkness in poi, sostituito da un mestierante televisivo come Bryan Shaw, aspetto non marginale se si considera l’abilità di Morawski di dare forza al taglio sghembo, fumettistico e soprattutto, pittorico di Raimi; ec-centricità che manca quasi del tutto nel film di Alvarez, piccola variazione sul tema che al di là di alcuni brevissimi momenti, poco ha a che vedere con la portentosa evoluzione digitale del cinema di Raimi, il cui recente Oz the great and powerful rilancia il talento e la cultura pittorica del regista americano in una dimensione che ha molto da condividere con quel “futuro” del cinema preconizzato anche dall’ultimo Peter Jackson.
Il nuovo Evil dead, nel tentativo di recuperare quella relazione tra animato e inanimato, come slittamento continuo del senso sull’idea di soggettiva, perde forza e incisività non tanto nel trapasso dall’artigianato dell’animazione tout court dell’originale all’inerzia del dispositivo industriale, quanto nell’incapacità di cogliere le possibilità del digitale come agente mutogeno, tanto che oggetti, specchi, cose che annientano corpi non rivelano niente di più di un tiepido tentativo di recupero di quella forza devastante che era presente nella versione girata da Raimi nel 1981; difficile anche forzare la riflessione in una direzione teorica, sarebbe un esercizio critico del tutto inutile, basta pensare alle sequenze in cui gli specchi diventano aperture per il transito tra due mondi e a come solo con quelli, l’ultimo sottovalutato Carpenter, riesca a costruire un complesso percorso cognitivo sullo sfaldamento della percezione.
C’è un tentativo di marcare l’assenza di Bruce Campbell, ovvero di una vera e propria figura nomade che sopravvivendo alla possessione, mantiene una posizione centrale e allo stesso tempo di transito, con una blanda de-centralizzazione del personaggio principale; la figura di Mia (Jane Levy) subisce una stratificazione per certi versi interessante, è l’origine, Storica, di un male che mina il cuore stesso della coesione famigliare, è colei che ne assorbe tutta l’eredità, ed infine, in mezzo ad un manipolo di personaggi senza nerbo, è la stessa che si libera dalla possessione acquisendo nuovamente il controllo del proprio corpo, una variazione stimolante, ma che non lascia alcuna cicatrice.