Elle s’appelait Sarah porta sullo schermo il romanzo di Tatiana de Rosnay e lo fa con la precisa volontà di colpire il pubblico, Gilles Paquet-Brenner non risparmia coups de thêatre per creare emozioni e lacrime, con la fatale tendenza al bozzettismo del prodotto d’intrattenimento cinematografico privo di sicuro senso storico. Si tratta dell’ennesimo prodotto della serie “parliamo della Shoah”, magari rispolverando uno degli episodi meno noti e quindi più capaci di suscitare grande sdegno postumo, imbastendogli intorno una storia tesa a creare immancabili corti circuiti emozionali. Le esigenze narrative hanno il sopravvento su ogni altra considerazione, e l’irrappresentabile è così rappresentato, piegato senza problemi ad una applicazione in chiave cinematografica dello schema di Propp: equilibrio iniziale: Kristin Scott Thomas, brava come sempre, è Julia Jarmond, giornalista americana che vive a Parigi con un architetto francese e una figlia adolescente. rottura dell’equilibrio iniziale: Julia si sta occupando, per lavoro, di uno degli episodi più vergognosi della storia di Francia: tredicimila ebrei arrestati e concentrati dalla polizia francese nel Vélodrome d’Hiver nel luglio del 1942, poi trasferiti a Beaune-la –Rolande e da lì sui treni diretti ai campi di sterminio. Nella costruzione del réportage la sua vita entra fortunosamente in contatto con quella di Sarah, piccola ebrea vissuta sessanta anni prima, e la chiave in suo possesso, con cui ha chiuso il fratellino nell’armadio per salvarlo, diventa il focus del racconto. peripezie dell’eroe: la scoperta della verità, frutto di ricerche e peregrinazioni da una riva all’altra dell’Atlantico, porta allo svelamento, emerge il passato con tutto il suo carico di miseria, dolore e vergogna, e i due piani narrativi (1942 e 2009) possono finalmente ricongiungersi in sintesi. ristabilimento dell’equilibrio e conclusione: ora che Julia ha placato la sua sete di verità e la sua vita sentimentale, sulla quale il regista pigia forte il pedale, ha imboccato la strada che tutti si aspettavano fin dalle prime scene di coppia, ci sarà l’inatteso frutto dell’amore a riempire i cuori di nuova speranza per il futuro ed è la novella Sarah, nome bene augurale della piccola figlia di Julia, bimbetta che lei ha scelto di far crescere tra America e Francia, facendo a meno di quel marito che voleva farla abortire. Una valida spalla amichevole su cui appoggiare ora la sua felicità è quella di William, figlio di Sarah, scoperto nel corso delle peripezie precedenti.
Come epigrafe una frase edificante:
“Quando una storia viene raccontata non può essere dimenticata, diventa qualcos’altro, il ricordo di chi eravamo, la speranza di ciò che possiamo diventare” voice over accompagnata dal finale di una colonna sonora a tratti lamentevole e a tratti enfatica che imperversa lungo tutto il film.
Pur potendo contare su attori di consumata esperienza come Scott Tomas e Arestrup, il film manca di equilibrio e stile, vuol cimentarsi con una storia che ha segnato un secolo, aprendo voragini impensabili in cui l’umanità si è dovuta riconoscere, ma non ne è all’altezza, cade piuttosto in un facile didascalismo manicheo per cui i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, salvo poi scoprire, distorcendone il senso, che la banalità del male è fra noi. In realtà di banale c’è il film, e se l’unico merito è quello di riportare alla luce fatti della Francia che Chirac si decise solo nel 2005 ad ammettere di fronte al mondo, va detto che La rafle di Roselyne Bosch sullo stesso episodio della Storia, film prodotto nel 2010, singolarmente lo stesso anno di Elle s’appelait Sarah, è di molte misure superiore, anche se, bisogna dire anche questo, di poliziotti carogna, funzionari collusi con il potere, civili incapaci di prender coscienza, a volte addirittura complici, scene di rastrellamento, campi e baracche ricostruiti sul set e poveri bambini vittime della cieca violenza dell’uomo non si sente la mancanza, pedine sicure per alimentare lo sdegno e gridare forte, almeno una volta l’anno, che il passato non deve tornare (salvo poi verificare che, puntualmente, torna, mutatis mutandis). Ma la Shoah non è stata un pezzo di storia come un altro, e ormai bisognerebbe smettere di servirsene: “Per colpa di questo film molte persone si sono disperate, si chiedevano cosa avrebbero potuto fare dopo sull’argomento. E ogni volta che io rivedo Shoah mi colpisce non solo la sua forza ma anche una specie di “verum index sui” che mi fa pensare a come tutte le discussioni attuali si annullino a contatto col film. Bisogna reimmergersi in Shoah e si capisce cos’abbia avuto di innovativo.”
Così Lanzmann nell’intervista in prefazione al volume edito da Einaudi allegato all’edizione di Shoah nel 2007. Ciononostante si è continuato a “far cose” sull’argomento, a credere di poterlo fare nonostante Lanzmann. Solo vedendo il suo film ci si rende conto di quanto sia vero quello che dice, e il giudizio di Simone de Beauvoir ne è una conferma: “Non è facile parlare di Shoah. C’è della magia in questo film, e la magia non si può spiegare.Abbiamo letto, dopo la guerra, un gran numero di testimonianze sui ghetti, sui campi di sterminio; ne eravamo sconvolti. Ma oggi, vedendo lo straordinario film di Claude Lanzmann, ci accorgiamo di non aver saputo niente. Malgrado tutte le nostre conoscenze, quella terribile esperienza rimaneva distante da noi. Per la prima volta la viviamo nella nostra testa, nel nostro cuore, nella nostra carne. Diventa la nostra. Né romanzo né documentario, Shoah realizza questa ri-creazione del passato con una stupefacente economia di mezzi: dei luoghi, delle voci, dei volti.”