Nella zona portuale di Yokohama, alla vigilia delle Olimpiadi di Tokyo del ‘64, la sedicenne Masumi Matsuzaki aiuta coscenziosamente la nonna a gestire l’ostello di famiglia e issa ogni giorno le bandiere del codice nautico per salutare le navi della baia, in ricordo del padre marinaio scomparso quando era piccola. Intanto il suo compagno di liceo Shun Kazama si batte in prima linea, insieme ad altri membri dell’assemblea studentesca, per difendere il Quartier Latin, centro culturale studentesco che rischia di essere demolito per costruire la nuova clubhouse sportiva della scuola. Proprio questa battaglia per conservare il caotico e affascinante luogo di ritrovo li farà incontrare, innamorare e rivelerà loro un inaspettato passato in comune. Goro Miyazaki firma la sua seconda regia in un lungometraggio dello Studio Ghibli, dopo lo sciapo tentativo di emulare il fantasy del padre Hayao de I Racconti di Terramare. Tratto da un manga e ben radicato nella realtà giapponese degli anni ’60, La Collina dei Papaveri si discosta infatti dal fiabesco animismo che è marchio di fabbrica paterno e si avvicina alle atmosfere storico nostalgiche di Porco Rosso e di Una Tomba per le Lucciole di Isao Takahata, altro fondatore e nume del glorioso Studio.
L’elemento fantastico, difatti, non è indispensabile per evocare atmosfere immaginifiche e sorprendenti, come dimostra la bellissima scena dell’ingresso delle ragazze nel polveroso e variegato microcosmo del Quartier Latin, a metà strada tra un centro sociale, Hogwarts e un negozio di antiquariato. La fascinazione per il magico sostituita da (o forse solo ridimensionata a) l’afflato nostalgico per cultura e valori del passato, senza cadere nel passatismo o cavalcare l’onda del bozzettismo vintage. La Collina dei Papaveri, confeziona la sua trama semplice e sorridentemente naif (“sembra la trama di uno sceneggiato di terz’ordine” dice a un tratto Kazama) affiancando il tratto chiaro e lineare tipico dello studio Ghibli a panorami impressionisti, brillii in lontananza, vapori e fumi biancheggianti, languidi aloni luminosi. Un’atmosfera gonfia di memorie e nostalgia ottenuta anche grazie alle misurate concessioni all’elaborazione computerizzata su una solida base di animazione classica. Se gli sfondi pittorici e l’impronta nostalgica non sono certo nuovi nell’universo dipinto dallo Studio Ghibli, in questo caso la scelta di un’estetica fluida e pennellata si connota in una luce programmatica: oltre alla locandina che richiama le colorazioni dei bozzetti, il quadro della signorina Hokuto, che fa da punto di svolta e immagine finale del film, ricorda un Monet ancor più nebuloso e impressionista. La forma dell’indeterminatezza, i contorni sfocati e i colori pastello, il tratto accennato, sono da sempre nella disciplina dell’illustrazione un metodo efficace per evocare la nebbia intellettiva che avvolge, e spesso concatena, sia il sogno che il ricordo. In accordo con questa caratterizzazione visiva, anche nei dialoghi emerge una chiara intenzione di rievocare “vecchia maniera” , che si concretizza in un affettato e composto linguaggio bon ton, correttamente mantenuto o addirittura amplificato dal doppiaggio italiano (“mi reco a visitare”, “sciocchina”, “fare fuga a scuola” e così via). E a maggior ragione, dietro la consistenza di un film grazioso e a tratti in bilico tra sentimentale e lacrimevole, si cela una pacata rivendicazione: la genuina lotta degli studenti “conservatori” che colgono l’importanza di un luogo ricco di tradizioni e lo rinnovano per mantenerlo in vita riflette in sottotesto la ferrea linea artistica che fa da spina dorsale allo Studio Ghibli, circondato da animazioni 3D, strizzate d’occhio al mondo adulto e ai post-generi, in un percorso deciso a rinnovare l’animazione classica senza stravolgerne confini e intenzioni, con fiducia nel potenziale transgenerazionale di narrazioni che si affidano a strutture classiche e all’universalità delle emozioni.