venerdì, Novembre 22, 2024

La faida di Joshua Marston (USA, Albania, Italia, Danimarca, 2011)

Prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci, La faida di Joshua Marston ruota intorno a una famiglia albanese costretta a serrarsi in casa, quando il padre famiglia Mark (Refet Abazi) uccide un vicino che si oppone a farlo passare sul suo terreno. Secondo gli antichi dettami del “Kanun”, i parenti della vittima possono vendicarsi, assassinando uno dei congiunti dell’omicida purché sia maschio e adulto. Pertanto, il diciassettenne Nik (Tristan Halilaj) deve abbandonare il suo banco di scuola e dire addio al sogno di aprire un internet point per rimanere ventiquattro ore su ventiquattro segregato tra quattro mura. Lo stesso vale per la sorella minore Rudina (Sindi Laçej), costretta a reinventarsi venditrice di pane e sigarette a domicilio per far quadrare i conti domestici. Ma, almeno, lei può ingabbiare il proprio dolore con i colori e i profumi del mondo esterno. Il film di Marston mette al primo posto il compito di indagare cosa si nasconde dentro e fuori il cerchio che delimita una famiglia. Con quest’affermazione non si vuole restringere il campo solo ai contrasti che possono nascere tra i diversi membri di un nucleo familiare. Ne La faida, infatti, il regista cinfonde volutamente la violenza che cresce tra consanguinei obbligati a condividere un unico spazio ai crimini di sangue tra soggetti appartenenti a clan rivali. L’autore di Maria Full of Grace mostra come in alcune realtà improntate a una vita essenzialmente rurale la rigidità dei ruoli sociali e il rispetto nei confronti delle antiche leggi possano scavalcare qualsiasi tipo di progresso tecnologico. Nell’Albania del Nord l’avanzamento industriale si misura con il contachilometri di uno scooter, con l’apparizione di Facebook e con telefonini dotati di obiettivo fotografico. E proprio attraverso quest’ultimo strumento, segno tangibile della trasformazione dei tempi, Nik cerca di soddisfare l’imperativo comunicazionale che divora le sue giornate che sfuggono via senza lasciare alcuna traccia. L’esistenza di reclusione vissuta da Nik è dallo stesso ragazzo truccata o almeno alleggerita nel momento in cui il diciassettenne sorride e agita la mano in gesto di saluto di fronte al cellulare di nuova generazione dell’amico. Registrare un piccolo video messaggio da recapitare ai compagni di scuola diviene pertanto la sola possibilità che ha di mantenere una relazione con i suoi coetanei.

Marston sembra seguire a prima vista le tracce di una vocazione di tipo documentarisco, con interventi minimi a livello di sceneggiatura  tanto che circostanze di questo genere accadono molto di frequente nei Balcani. Durante alcuni  sopralluoghi, il regista e il suo sceneggiatore Andamion Murataj si sono ritrovati  proprio al centro di una rappresaglia tra due cerchie familiari antagoniste.Nonostante questi elementi,  La faida è un film saldamente ancorato alle classiche convenzioni di una costruzione diegetica, con il grande pregio – per altro – di non banalizzare mai lo spessore psicologico dei personaggi. Marston sposta su un piano simbolico un fatto oggettivo come può essere l’uccisione di un uomo da parte del proprio padre. Il regista statunitense parte da quello che alcuni definiscono “fenomeno ambientale” per spingersi molto oltre. Nel corso del film l’individuazione personale di Nik e di sua sorella Rudina prende due percorsi differenti, quasi opposti, correlati dalla dicotomia rifiuto/accettazione. Riguardo a Nik, l’emotività dello spettatore viene riversata nella volontà del protagonista maschile di evadere dalla ripetizione dell’identico, ossia dal sottostare a delle consuetudini risalenti addirittura all’epoca medioevale. Nik è come un meccanismo a orologeria pronto a innescarsi da un momento all’altro, anche a rischio di mettere a repentaglio la sua stessa vita. Nel caso della giovane figlia, la macchina da presa descrive le ingiustizie che il sesso femminile deve subire in un piccolo mondo antico ancorato ad un’antropologia patriarcale.  Con notevole sensibilità Marston riesce a tradurre  in immagini e parole i tumulti interiori d’individui oltre la soglia della disperazione; il film ha ottenuto l’orso d’argento al Festival di Berlino 2011.

Redazione IE Cinema
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