giovedì, Dicembre 26, 2024

La grande Bellezza di Paolo Sorrentino: la recensione

Paolo Sorrentino torna in Italia scegliendo di raccontare la sua capitale, cuore nero e bellissimo di un Paese che ha smesso di sognare.

Dopo la parentesi americana di This must be the place, Paolo Sorrentino torna in Italia scegliendo di raccontare la sua capitale, cuore nero e bellissimo di un Paese che ha smesso di sognare. La grande bellezza, unico film italiano in concorso al Festival di Cannes – dove è stato accolto con quasi dieci minuti di applausi – attraversa la morte fisica e intellettuale nello spazio iridescente di un ballo sfrenato che copre con un vuoto assordante la ricerca di significati. Ha smesso di scrivere dopo appena un romanzo il protagonista Jep Gambardella – giornalista e scrittore partenopeo trapiantato a Roma, un Toni Servillo legato alla figura del regista nonché allo scomparso giornalista Giuseppe D’Avanzo, cui è dedicato il film – rapito dalla mondanità che non lascia spazio alla concentrazione. Intorno a lui una corte di personaggi – tra gli altri Carlo Verdone, Galatea Ranzi, Serena Grandi, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Roberto Herlitzka e Carlo Buccirosso – cullati dall’illusione che dietro la forma e la giostra delle apparenze si possa ancora trovare un senso nell’arte e nei rapporti umani. E’ Jep a smontare ogni velleità intellettualoide riportando con disincanto la parola e i concetti alla radice: lo fa nella sua terrazza vista Colosseo tra un cocktail e un pettegolezzo alto borghese, lo fa con la performer sperimentale dalla testa sanguinante che parla dell’arte come vibrazione senza riuscire a spiegare cosa sia una vibrazione. Le uniche a muoversi sulla stessa lunghezza d’onda del giornalista sembrano essere tre donne diversissime tra loro: il direttore del suo giornale – una cazzutissima nana che all’ora di pranzo accoglie Jep in redazione con minestrone e risotto – la sua domestica filippina, che lo conosce forse meglio di chiunque altro, e la figlia del coca-eroinomane anziano gestore di un night. Ramona – la Sabrina Ferilli icona della romanità – ha ormai passato i quaranta ma continua ad esibirsi in spogliarelli “raffinati” come non se ne vedono più per un inspiegabile bisogno di soldi. Jep – tombeur de femme di chiara fama – riesce con lei ad andare oltre il limitato fascino del corpo per mettere a nudo la sua sofferta anima in una dimensione privata che non sembra conciliarsi con il culto dell’ostentazione estremo fino alla morte, trasformata in ennesima esibizione di sé. Un’aura onirica avvolge il film seguendo le linee, immaginifiche più che narrative, di un perduto amore giovanile del protagonista e della ieratica sacralità di Roma espressa da figure e luoghi immersi nella luce, nel bianco che al calar della notte sfuma nel profondo e lascivo abisso fatto di gin tonic e techno music. Se Jep rimane sospeso in questo ebete limbo, l’amico Romano sceglie, dopo 30 anni di mancati debutti, di tornare al paese da mamma e papà perché Roma – la Roma che lascia i turisti senza fiato, bella da morir(n)e – ha deluso le sue aspettative, è come un pacco regalo dalla confezione stupenda che dentro la scatola non contiene però nulla. Dove cercare allora la vera bellezza? Nelle sontuose sale dei decadenti palazzi nobiliari o nell’icona della presunta estrema povertà – vissuta e non raccontata – che sale carponi la Scala Santa? Sorrentino tenta di afferrarla con la macchina da presa, e pur nella complessiva mancanza di fluidità sembra riuscirci con l’apporto della buona fotografia di Luca Bigazzi che accende la pellicola di chiaroscuri consegnando al valore dell’immagine la chiave di lettura di una storia in bilico tra estasi artistica e mondanità posticcia, con una bottarella di botulino come ultima speranza di riscatto.

Elisabetta La Micela
Elisabetta La Micela
Elisabetta La Micela si è laureata in Editoria e specializzata in Discipline dello spettacolo all’Università “La Sapienza” di Roma. Giornalista pubblicista, si occupa di scrittura creativa per diverse riviste on line e per la televisione, oltre ad aver maturato un’esperienza parallela nel campo della didattica e del teatro sociale.

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