Mazzacurati confeziona il film più ambizioso di una carriera ventennale, lasciando convogliare le sue passioni per le piccolezze provinciali e l’affetto verso gli ultimi in una riflessione sull’attuale cultura dello spettacolo. Gianni Dubois è un regista un tempo apprezzato ma da anni in piena crisi creativa, che per rilanciare la propria carriera deve convincere una divetta televisiva a girare un film con lui. Proprio in questo delicato momento, per aver danneggiato un affresco di una chiesetta di un paesino toscano viene costretto a girare una rappresentazione della Passione di Cristo, utilizzando lo scalcinato materiale umano del luogo. Pur facendo di tutto per non interessarsi alla rappresentazione, finisce per trovare nella sghemba vitalità della provincia la scintilla per svincolarsi dalle ipocrisie del jet set e far decollare di nuovo la sua vena creativa. Più vicino agli accenti farseschi di La Lingua del Santo che a quelli intimisti di La Giusta Distanza, il tono della narrazione alterna gag garbate e sagaci sul mondo del cinema a frequenti scivolamenti nel facile macchiettisimo (ai limiti dell’imbarazzo la locandiera teutonica della Paiato). La strada scelta per arrivare alla risata è il più delle volte la più facile e scontata, sovente coadiuvata dai consueti tic di Orlando, Guzzanti e Battiston (il più bravo, anche se relegato ancora nel ruolo del simpatico panzone). Il tema liturgico del ritorno all’innocenza e all’onestà intellettuale attraverso la restituzione della via crucis agli umili viene trattato con una limpidità naive che rasenta la superficialità. Il film sa però riscattarsi in un finale volutamente sottotono, dove nessuno pare vincere davvero e ognuno torna a ricoprire il ruolo di “povero cristo” che accomuna la condizione umana. Una pellicola , si diceva, che rischia però di offuscare l’amarezza che racconta dietro una cortina di sghignazzi telefonati, giungendo agli spettatori come un prodotto più banale delle intenzioni da cui scaturisce.