Ascanio Celestini si cimenta nella difficile sfida di declinare al cinema una delle sue opere teatrali e letterarie più popolari e riuscite, La Pecora Nera. Elogio Funebre del Manicomio Elettrico, prosa poetica basata sull’esperienza di Alberto Paolini, recluso per 42 in manicomio. Alberto, da sempre ultimo della classe e fratellino scemo per partito preso, tra le visite alla madre ricoverata e la devozione della nonna verso le suore che si prendono cura dei malati, passa la sua esistenza in continuo contatto con l’Istituto di Igiene Mentale, finendo per vivere e fossilizzarsi al suo interno. Come detto in conferenza stampa dal regista stesso, non vi è traccia di denunce contro la condizione dei malati di mente nei manicomi (si accenna all’elettroshock solo di sfuggita), quanto semmai un atto d’accusa più ampio verso la stessa pretesa delle istituzioni di porre linee di demarcazione invalicabili tra matti e normali. La malattia viene alimentata dal gioco di specchi della reclusione e la follia diviene profezia auto-avverante, riverberata da pareti, cancelli, inferriate e altre barriere architettoniche tracciate nello spasmo di “mettere in ordine” la società. Una visione che emerge con pregevole chiarezza dalla narrazione, coadiuvata dalle preziose ombre impietose che segnano la fotografia di Daniele Ciprì. La naivetè caratteristica dell’attore romano, screziata da cantilene e suggestioni rurali, viene conservata nel passaggio dal teatro al cinema, ma sbotta in goffe ingenuità di sceneggiatura quando non viene supportata dalla voice over enunciata di un Celestini che si sceglie il ruolo di protagonista e contemporaneamente di istanza esterna alla narrazione. Ne è un esempio lampante lo sfogo del personaggio principale nel supermercato, prigione dei normali, durante il quale lo scimmiottamento della follia scade in una banalizzazione stereotipica. Il difetto congenito del film è in effetti il suo piegarsi alla forza del testo che lo precede: Celestini non rinuncia all’energia espressiva dei suoi monologhi teatrali, che sovrastano dalla banda sonora più della metà del girato. Così, le immagini si fanno spesso didascalia esplicativa del testo recitato, disperdendone l’efficacia e sovvertendo senza successo le gerarchie proprie del medium cinema. Non a caso, la tensione emotiva si impenna d’improvviso nella scena finale, dove il set torna a farsi palcoscenico, la voce di Paolini si fa presenza e Celestini, col suo sguardo in camera, ci inchioda ben più di quanto fatto nei novanta minuti precedenti e piuttosto deludenti. Un secondo tentativo sul grande schermo, comunque, non pare del tutto fuori portata, a patto di affidarsi con più convinzione al regime dell’immagine.