La contaminazione, le piaghe di un mondo animale in decomposizione, la natura che non dialoga più con i suoi abitanti attraversa tutti e tre i lungometraggi dei belgi Peter Brosens e Jessica Woodworth, che con La cinquième saison, realizzato a tre anni di distanza da Altiplano, chiudono una trilogia tra fenomenologia della natura ed elegia del disastro.
All’individualismo nomade di Khadak che entra in conflitto con una natura impazzita, e alla coppia nucleare che si confronta con la disgregazione di una collettività colpita dalla contaminazione in Altiplano, il nuovo lavoro della coppia sostituisce l’osservazione di un’intera comunità che si sostiene con i frutti della terra.
La scansione stagionale serve ad accentuare la forza di una “natura indifferente” dove un inverno quasi post atomico non passa mai e le molteplici possibilità del raccolto si esauriscono. Immagine della morte che viene accentuata da Brosens / Woodworth con una staticità bozzettistica solo per il punto di vista scelto, quasi sempre frontale e di derivazione pittorica, non certo nelle modalità che almeno intenzionalmente dovrebbero spezzare la monodimensionalità del quadro per spingersi in profondità verso un’idea di cinema dronico, una sorta di estasi sonoro-visiva che dovrebbe ricondurci ad una forma atavica e ritualistica.
I capitoli allora non sono solamente quattro, più un quinto senza più umanità, che rimane fuori campo, ma sono moltiplicati dalla frammentazione interna degli stessi, ricca di molteplici tableaux vivants, alcuni dei quali collocati in posizione interludica, dove i volti o i corpi dei protagonisti sono congelati in una comunione atavica e infinita con la natura, è qui che Brosens / Woodworth si servono di musica e suoni acusmatici, cercando di sostituire al movimento dell’occhio una costruzione del tutto mentale.
In questa affascinante, inesorabile e spietata geometria sembra impossibile trovare spazio per il Cinema, ovvero per quell’interstzio che avrebbe potuto mettere in comunicazione, anche da una prospettiva negativa, i corpi e la natura, i bozzetti e il fluire del fenomeno verso lo spegnimento. I momenti più riusciti del film sono quelli dove il rituale delle feste trova nella staticità del quadro un movimento interno di forza ancestrale e performativa, in questi casi i due autori belgi sembrano cercare una comunione complessa tra natura e rappresentazione trovando finalmente un livello metamorfico dell’immagine, sembra in un certo senso una rilettura di quell’iperrealismo fiammingo per come l’ha affrontata lo Spagnolo Dino Valls.
Se tutta la parte conclusiva, con quel rituale sabbatico terribile, riesce a creare una vera immagine del dolore, con un setting rigoroso che ricorda il paganesimo di The Wicker Man calato in un mondo sterile senza nessuna utopia anti-cristiana, è il segno di un Cinema che sta sempre un po’ al di qua dei corpi, li osserva a distanza, li precede e si illude che rigore significhi composizione impenetrabile dell’inquadratura.