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L’altra verità di Ken Loach (GB, 2011)

Ken Loach è forse uno degli ultimi cineasti di denuncia “vecchio stampo”, quelli che prima scelgono di cosa parlare e poi ci costruiscono un film intorno; Raffaele Pavoni ci parla de L'altra Verità...

Ken Loach è forse uno degli ultimi cineasti di denuncia “vecchio stampo”, quelli che prima scelgono di cosa parlare e poi ci costruiscono un film intorno. Il rischio è quello di risultare costruito, forzato, pieno di “conti che devono tornare” (per dirla con parole di Giovanni Lindo Ferretti). È il caso, purtroppo, di questo L’altra Verità (tit. or. Route Irish, strada di Baghdad considerata “la più pericolosa del mondo”).  Fergus e Frankie sono due contractors britannici, ingaggiati da una ditta privata per compiere azioni di guerra in Iraq. Frankie muore in circostanze ambigue, e sarà l’amico Fergus a voler indagare ostinatamente sulla sua morte. Frankie non si trova semplicemente “al posto sbagliato nel momento sbagliato” (“wrong time, wrong place”), ma vien fatto fuori come testimone scomodo dopo aver assistito ad una strage di civili. Parlando dell’utilizzo dei soldati mercenari nel conflitto iracheno, unità armate che non appartengono a eserciti regolari e che, come tali, vengono ignorate sia da vivie che da morte (la salma di Frankie non avrà diritto che a un semplice funerale civile), Loach vuole approfondire un aspetto poco noto di una guerra di cui crediamo di sapere tutto, dimenticandoci che non può esistere una guerra senza censure o mistificazioni, anche nell’epoca del web, specie se si parla delle azioni dei contractors, che devono rendere conto delle proprie azioni non ad un governo ma ad enti di diritto privato, in un sistema neoliberista che tende a delocalizzare tutto, anche la morte e la distruzione. Dopo il guizzo “comico-esistenzialista” de Il mio amico Eric, qui torna il Ken Loach di lotta, quello che punta l’indice (e il medio) contro i potenti e che non ha paura di fare nomi e cognomi. E in questo film, a livello contenutistico, troviamo alcuni dei temi prediletti del regista britannico: come in È un mondo libero, è presente lo stridente contrasto tra la libertà professata dal nostro sistema economico, lo sfruttamento e l’ipocrisia da esso generato (tema qui più teorizzato che analizzato, in verità); e sul modello de La Canzone di Carla la storia si divide tra primo e terzo mondo: tutto il film si svolge tra una Liverpool plumbea, brumosa, caratterizzata da forti chiaroscuri, nuvole e acque torbide, e un Iraq ricordato, puramente mentale, reso invece con colori caldi, come a sottolineare l’inconciliabilità del vecchio e del nuovo Fergus, un conflitto che è la colonna portante di tutto il dramma e che si risolverà solo nel tragico finale. Da Piovono Pietre e Riff Raff Loach mutua la violenza come sola giustizia percorribile, la vendetta personale configurata come unica possibile rivalsa. Insomma, sembra che una volta accertata la “loachianità” del tema trattato a mancare sia proprio il film, ed è in questo passaggio che il regista si perde. Adottando gli stilemi del thriller classico, Loach confeziona un film che sfrutta meccanismi emotivi talvolta banali e rimasticati (il soldato che prende coscienza dell’orrore della guerra, la forza dell’amicizia), anche se non mancano spunti più lucidi e personali: l’inesorabile discesa verso gli inferi di un uomo che non trova espiazione se non nella violenza (un “cane rabbioso” che va abbattuto), o l’amore impossibile tra Fergus e Rachel (per colpa appunto di questa “assenza” di Fergus dal presente, nel suo essere prigioniero, anche cinematograficamente, di flashback del passato). È proprio nelle scene di coppia che emerge il talento del regista: la separazione dei piani nella scena, Fergus che non fa entrare Rachel in casa sua, la prima scena di violenza-amore tra i due (con i due corpi che scivolano lentamente dall’odio più violento all’amore più passionale). Purtroppo i personaggi sono completamente avulsi dal loro contesto socioeconomico, ed il film fa rimpiangere gli spaccati sociali che hanno reso celebre Ken Loach. Lo sceneggiatore Paul Laverty, altrove più contenuto, qui si abbandona a sentimentalismi e facili manicheismi, e per un cinema che si vuole “reale” la mancanza di verosimiglianza è un peccato veniale. La musica e lo stile narrativo, assolutamente convenzionali, rendono ancor più piatto un film di per sé già poco brillante. Dispiace perché ormai, a 8 anni dall’inizio del conflitto, molti sono i film che parlano di guerra in Iraq, e messo a confronto con lavori del calibro di The Hurt Locker, Redacted o L’uomo nell’ombra, L’altra verità sicuramente affonda maggiormente nell’attualità politica, ma al di là di un pugno di interessanti informazioni ci dice cose trite in modo trito. L’apporto di un “vecchio saggio” come Ken Loach poteva sicuramente essere maggiore.

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Raffaele Pavoni (Piombino - LI, 15/04/1987) si è laureato in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo nel 2008, e ha ottenuto il diploma CESCOT di Tecnico Qualificato Documentarista nel 2009. Ha all'attivo documentari, cortometraggi, clip promozionali, collaborazioni con emittenti televisive e studi fotografici, partecipazioni a festival. Ha collaborato e collabora per varie testate web. Vive e lavora a Firenze.
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