martedì, Novembre 19, 2024

L’anima e la carne: Le streghe di Salem di Rob Zombie

Le deflagrazioni concettuali di Robert Bartleh Cummings, in arte Rob Zombie, oltre vent’anni fa già con la band eponima dei White Zombie, anticipavano il dibattito sul patrimonio sommerso della cultura popolare, dalla serie b in giu, in sostanza facendone uno dei precognitori, con relativo recupero rilettura e successive moda e santificazione ad oltranza.

Già il secondo album di quella formazione, portava come titolo Make Them Die Slowly che altri non è se non il titolo internazionale dell’ormai famigerato Cannibal Ferox di Umberto Lenzi, laddove il thrash andava in soluzione con quell’idea di sottocultura dello scarto che nella metà dei ‘90 piacque tanto chiamare trash. La sintesi tra realtà profondamente distanti (l’una nata per contrasto con l’altra, l’underground vs. la massa) che il filtro critico traduceva in immaginario post storico; una catastrofe culturale in cui ogni referente sub pop, veniva reimpiegato nella demolizione del medesimo universo che lo aveva creato e rispetto al quale, lo stesso Rob dichiara apertamente di appartenere (More Human, Than Human recitava il titolo nietzschiano del brano cardine di su Astro Creep 2000).

Cinema, arte, letteratura, fumetto, TV ultrapopolari, divengono così il terreno del conflitto tra le anime di un autore monolitico ma più sottile di quanto il suo stesso prodotto potrebbe far credere (soprattutto le ultime produzioni musicali da solista, tarate su un techno-rock piuttosto dozzinale), che forte della sua estrazione media, sfida l’american way of life sul suo stesso terreno, conoscendone e riconoscendone ogni singolo aspetto e restituendolo in forma d’invettiva.

Una volta dietro la macchina da presa, Cummings riporta le stesse istanze che hanno animato i solchi dei suoi dischi, rivelando un autore robusto e cinefilo la cui smania fagocitante non sembra lontana, almeno idealmente, dallo stesso Tarantino (e non a caso si è ritrovato a girare Werewolf woman of the SS: uno dei trailer fittizi di Grindhouse) ma in una prospettiva post hardcore che sembra sempre riemergere, inesausta. Cos’è stata  finora la sua filmografia se non una deliberata manifestazione d’intransigenza verso gli istituti della società USA (e quindi dell’intero sistema occidentale) in forma di film di genere?

La famiglia, la legge, la psichiatria, ogni forma d’istituzione, attraverso titoli (da grindhosue) come La Casa Dei Mille Corpi o La Casa Del Diavolo ed i due stessi Halloween  (Halloween The Beginning e Halloween II), viene demolita con una ferocia tanto provocatoria quanto consapevole ed attenta. Zombie, insomma riporta le istanze dell’universo alternative (quello di un tempo, perlomeno), lo sguardo sull’America degli ultimi, all’interno della macchina hollywoodiana, tanto da faticare non poco per riuscire a godere della fiducia delle grandi produzioni (il progetto abortito de Il Corvo 3 ne è un esempio) e lo fa utilizzando il linguaggio a lui più congeniale: quello del metallaro contaminato.

Con Le Streghe di Salem, però Robert Bartleh porta avanti il suo personale discorso su un nuovo piano. La componente orrorifica diviene solo una delle tante in campo; la trama è quasi inesistente, costruita attraverso una serie di suggestioni ed anche debolmente retorica; quasi un pretesto per far esplodere quella metafora della perdita di sé che il film realmente è, attraverso una messa in scena che è pura forma.

Heidi Hawthorne lavora come DJ in una radio locale di Salem (luogo della memoria gotica, che alla psicogeografia collettiva, attraverso il Salem’s Lot di Stephen King, rimanda al processo per stregoneria che realmente ebbe atto sul finire del ‘600 ed a cui il film rimanda esplicitamente). L’arrivo di un misterioso disco a firma della band Lords of Salem alla redazione del network, darà avvio ad una discesa agli inferi segnata da una serie di manifestazioni sempre più disturbanti, che oltre a coinvolgere gli abitanti di sesso femminile della città, porteranno Heidi prima sulla soglia della pazzia poi letteralmente in un’altra dimensione, in cui le unità aristoteliche vengono completamente alterate ed i segni del maligno deflagrano in un’orgia visionaria.

Le Streghe Di Salem concentra su di se le infinite direttive di un cinema che gioca con l’estremo, anche senza toccarlo fino in fondo. Un cinema che si nutre di ogni segno della cultura visiva: fosse essa mutuata da sedute interminabili davanti Mtv (Zombie è anche regista di videoclip); dalle visioni infernali di Bosch, Bruegel e Salvator Rosa o da una frenesia videodipendente onnivora, talmente radicata da non concretizzarsi più in semplice paratassi ma divenendo struttura interna (narrativa, immaginifica) ad ogni singola sequenza.

Così che Kubrick diventi una presenza costante, pervasiva; continuamente richiamata nella prossemica, nelle simmetrie, persino negli oggetti di scena. L’alterità straniata di Lynch (Mulholland Drive e Inland Empire su tutti con più di una nota a Twin Peaks) si amalgami alle oniriche sensualità gotiche di Jean Rollin ed ai tempi dispari di De Ossorio; Rosemary’s Baby faccia da leit motiv (de)criptato e Ken Russell si palesi in accelerazioni lisergiche, eretiche e grottesche insieme a Carpenter.

Ma più di tutte, in un film che sa essere esteticamente e profondamente a stelle e strisce, pur rimanendo saldamente legato ad un immaginario stilistico europeo, sono le iperboli dissacratorie di Jess Franco ad emergere dallo schermo: la carnalità della macchina carezza il corpo di Sheri Moon Zombie (la sua personale Lina Romay, moglie/musa, attrice in ogni suo lavoro) elevandolo a personaggio indipendente e caricandolo d’inarrivabile matura sensualità con amorevole, feticistica, dedizione.

Perché come il maestro spagnolo, attraverso uno sguardo lubrico (in questo caso in realtà molto trattenuto), Zombie mostra un’esaltazione assoluta per la femminilità. Il suo è un film di donne: viste, scrutate, esaltate, lambite, con qualunque possibile accezione; siano esse vittime, carnefici, streghe all’apparenza bonarie e per converso fate tossiche, agenti in un mondo maschile, confuso, ingenuo, quasi inesistente.

E Lucio Fulci (da sempre nume del buon Rob) che è una presenza costante, continua: nei tagli di tante inquadrature ma anche in certe slabbrature narrative e nelle pseudo mitologie para lovecraftiane, cosi come in certe ricercate approssimazioni; nell’insistere sul dettaglio dell’effetto artigianale che ad onta di ogni computer grafica continua a risultare molto più disturbante e addirittura raccapricciante, di qualunque digitalizzazione; prova ne sia la sequenza del parto.

Perché Zombie ha uno sguardo sporco, polveroso, sfacciato, che si muove sul limite del perturbante, scalfendolo in più di un’occasione, recuperando il meccanismo del cult Morte A 33 Giri (il vinile come trasmissione di una forma arcana) per stabilire un’inedita dinamica frizione tra immagine e suono. La musica si fa diegetica: i Lords Of Salem motore dell’azione ed oscuri convitati di pietra e per noi musicomani un pastiche minimal industrial che sa di Z’Ev, Brighter Death Now o anche solo di Liars prima maniera. Ma sopratutto Venus In Furs declinata come una marcia erotico funebre, cosa che realmente è del resto, che prima precede e poi reinterpreta gli eventi e  la cromia bianco/nera ripetuta, sovraesposta continuamente, come allusione alla dicotomia del maligno nell’estetica audiovisiva del black metal, componente ben presente nella pellicola.

Rob Zombie, con Le Streghe Di Salem gira di certo il suo capolavoro; la pellicola in cui il suo sguardo peculiare e subito riconoscibile si presta alla reinterpretazione della sua stessa forma. Un’opera coraggiosa, forse anche pretenziosa, che mira alle coordinate lanciate dalla stagione dell’horror politico (ancora Carpenter), con l’uso di un formulario dissacratorio e del cameo ricercato, basta pensare al sovrapporsi continuo di immagini cristologiche e visioni estreme e alla presenza della cronenberghiana Meg Foster, oltre ad una serie di brillanti caratteristi d’antan, da Bruce Davison a Judy Geeson e Patricia Quinn. Ma il film è  anche un attacco all’oscurantismo di una chiesa americana sempre prossima al fondamentalismo vero e proprio; che si configura quindi come ultima tappa di quel percorso anti-sistema di cui sopra. Un principio che lo spettatore non yankee, può recepire forse solo marginalmente ma la cui forza, anche se figlia di un retroterra all tattooed, caciarone e birraiolo, resta indiscutibile.

A questo punto, però, sarebbe lecito chiedersi cosa sarebbe potuto essere il film se la stessa materia fosse stata trattata in modo ancora più teso, ancora più difforme; magari sino a spingersi oltre la narrazione, oltre l’immagine, oltre il genere, oltre la gratuita (ma attenzione: benemerita e sacrosanta) messa in scena dell’oltraggio, tanto da divenire davvero quel I Diavoli gotico che, alla fine non riesce ad essere del tutto. La visone della vergine su cumulo umano è però comunque anti-icona di rarissima efficacia.

Alessio Bosco
Alessio Bosco
Alessio Bosco - Suona, studia storia dell'arte, scrive di musica e cinema.

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