Per il suo film di esordio Chabrol sceglie il villaggio natale, Sardent, nel centro della Francia, rifugio dell’infanzia durante la guerra e ottimo laboratorio per dare il via alla vivisezione sul corpo nudo della profonda provincia francese, tema fra i più forti della sua filmografia nei cinquant’anni seguenti. Esponente della generazione parigina del dopoguerra e testimone di un’epoca afflitta dalle lacerazioni che la guerra d’Algeria provocava nelle coscienze, Chabrol elabora una metafora del processo di degrado della cultura borghese facendo tornare François in un luogo d’origine ormai in decomposizione, teatro di umori, tensioni e contraddizioni che lasciano intuire pesanti scheletri nell’armadio. I giovanissimi Jean-Claude Brialy/François e Gérad Blain/Serge saranno d’ora in poi gli interpreti prediletti dai registi francesi della Nouvelle Vague, entrambi fedeli al ruolo che Chabrol seppe cucire sulla loro immagine a partire da Le beau Serge e poi con Les cousins, immediatamente successivo e Orso d’oro a Berlino 1959. Il volto affilato di Serge, lo sguardo indifeso e sfuggente da animale braccato, la propensione quasi istintiva della sua personalità fragile e tormentata all’autodistruzione, si confrontano con la cristologica mitezza e “bressoniana” santità di François, l’amico tornato dopo tanti anni al paese per curarsi la tubercolosi. Il loro è un rapporto complesso, tenero e violento insieme, si avverte la forza del legame ininterrotto nella distanza ma anche una fatalistica incapacità a cambiare il corso delle cose. Serge ha fatto un matrimonio fallimentare, il recente aborto spontaneo della moglie (ora di nuovo incinta) ha peggiorato la sua condizione di cronica insoddisfazione, si è dato all’alcool e sta precipitando nella condizione di sbandato. L’incontro con l’antico amico sembra ridargli spinta e consapevolezza della sua realtà, ma è solo un fuoco fatuo, Serge appartiene alla categoria dei maudits, un James Dean all’europea con il suo carico di tragedia che brucia in fretta ogni prospettiva di rinascita. François cerca di aiutarlo, ma nulla fa presagire per l’amico un futuro diverso, anche quando arriverà a rischiare la sua salute per lui, trovato ubriaco nella neve e trascinato a casa mentre nasce il nuovo figlio. Il sorriso di Serge nell’inquadratura finale, a suggerire l’idea di una sua redenzione per l’arrivo del figlio, suona infatti come forzatura nel profilo del personaggio, nessuna proiezione catartica si era prefigurata nel corso del film, ci sono indubbiamente difetti in quest’opera prima alquanto eccessiva nel contrapporre il candore assoluto dell’uno alla violenza, sotterranea ma sempre pronta ad esplodere di rabbia repressa, dell’altro. Va comunque rilevata la maestria che Chabrol mostra fin d’ora nel far agire persone normali in situazioni eccezionali in un crescendo di disagio e tensione sotto pelle, la sua meticolosa precisione nel lasciar intuire più che vedere, la capacità di evocare atmosfere e giocare abilmente sul contrasto tra l’apparire e l’essere. L’ambientazione rurale e la lontananza dai nefasti condizionamenti della civiltà urbana non evocano orizzonti salvifici nè approdi purificatori in mondi incontaminati, piuttosto accentuano per contrasto il senso di degenerazione dei rapporti umani, così che la solitudine irrimediabile dell’individuo, la devianza nell’alcolismo e la trasgressione del tabù (l’incesto) sembrano emergere come fango dall’apparente normalità del quotidiano.
Premiato con il Pardo d’Argento a Locarno, Le beau Serge fu uno dei manifesti programmatici di quel modo nuovo di intendere il cinema che in quegli anni si stava diffondendo in Europa (il Manifesto di Oberhausen del Nuovo Cinema Tedesco è del ’62) e che in Francia tradusse umori e inquietudini di quella nuova generazione di cineasti dai nomi come Malle, Truffaut, Rohmer, Rivette e Godard. Cinema come “rivelazione del reale”, capacità di “essere contemporanei” al proprio tempo, spinta a creare un “linguaggio” fatto di autoconsapevolezza, gusto della citazione (Hitchcock, Lang, Hawks, Ray, Mann e Aldrich fra i prediletti), abbattimento del costo medio di produzione (Chabrol potè produrre il film grazie al lascito testamentario di qualche milione di franchi della nonna della prima moglie) in nome della piena libertà dell’autore di esprimersi aderendo al magistero critico e teorico di André Bazin e alla spinta propulsiva dei Cahiers du Cinéma. Un cinema, scriveva Godard, come “linguaggio cosciente della propria storia, avvertito rispetto alla funzione delle proprie tecniche, autoriflessivo”. Le beau Serge è già tutto questo, nelle scelte di regia è chiaramente avvertibile l’attitudine a seguire quelli che Alexander Kluge definiva “i meccanismi sotterranei del pensiero” lì dove delineava i principi formali del nuovo cinema tedesco, in felice sintonia cronologica e ideale con quanto avveniva nella vicina Francia:
“Dal momento in cui ogni taglio di montaggio provoca la fantasia, una tempesta di fantasia, può generare addirittura una pausa nella narrazione. È esattamente in questo punto che le informazioni vengono convogliate. Questo è quello che Benjamin intendeva con la nozione di shock. Sarebbe sbagliato affermare che un film deve aspirare a scioccare gli spettatori, questo limiterebbe la loro indipendenza e le loro capacità di percepire. Il punto in questione è la sorpresa che scaturisce quando, attraverso meccanismi sotterranei del pensiero, improvvisamente si comprende qualcosa in profondità, e da questa prospettiva si indirizza di nuovo la fantasia al corso reale della narrazione e i meccanismi sotterranei del pensiero seguono attoniti le immagini che sfilano piane, nulla che esca dall’alveo dell’agire quotidiano, e si avverte la rete sottile che si sta infittendo, le maglie che si stringono, le parole di un lessico che spinge sempre più verso la violenza inaudita, quella che culmina in tragedia assurda, con l’innocente che diventa colpevole e la giustizia che trionfa e appaga.”
[box title=”LLe beau Serge di Claude Chabrol / DVD Criterion – 2011″ color=”#D46D00″]
Criterion pubblica Le Beau Serge in versione Blu-ray con un trasferimento 1080p/1.33:1; il risultato, considerata l’età della pellicola, ha la consueta perfezione Criterion a livello di restauro, senza nessun tipo di difetto e con un’esaltazione dei dettagli notevole. L’audio è un mono PCM non compresso di alta qualità e senza distorsioni percepibili, ovviamente in lingua originale Francese con la classica sottotitolatura in inglese della Criterion, ad alto livello di leggibilità. . Gli extra includono un audio commento curato da Guy Austin, un documentario su Chabrol intitolato “Claude Chabrol: Mon Premier Film” della durata di 51 minuti, un’intervista d’archivio di 10 minuti annata 1969, trailer originale e il classico booklet che correda quasi tutte le uscite criterion, con un ricco saggio scritto da Terence Rafferty.