venerdì, Novembre 15, 2024

Les Misérables di Tom Hooper (Gb, 2012)

lI Miserabili, progetto, messo in cantiere e mai portato a termine, arriva grazie alla regia di Tom Hooper

“Look down Javert”. Uscito dalla cloaca parigina con l’esanime Marius sulle spalle, l’erculeo Jean Valjean si rivolge al nemico di sempre perché allenti la morsa, gli consenta di compiere un ultimo gesto di misericordia, salvando il rivoluzionario bonapartista innamorato di Cosette. È la chiave di volta de Les Misérables, spettacolare trasposizione cinematografica del romanzo cardine di Victor Hugo, nella versione di Claude-Michel Schönberg e Alain Boublil (e del geniale produttore Cameron Mackintosh), autori dei testi e delle musiche di uno dei musical più longevi della storia recente (nel West End londinese le repliche proseguono ininterrotte dal 1985). Il progetto, messo in cantiere e mai portato a termine, con registi come Alan Parker e Bruce Beresford, risale alla fine degli anni ’80, ma ad aggiudicarsi la partita è stato il quarantenne Tom Hooper. Ancora fresco della messe di oscar piovuta sul precedente Il discorso del re, il regista britannico mette in scena la storia di caduta e redenzione del miserabile Jean Valjean, attenendosi fedelmente all’impianto musical-narrativo dell’originale teatrale (alla sceneggiatura di William Nicholson hanno collaborato Schönberg, Boublil, nonché l’autore della versione inglese Herbert Kretzmer) e scegliendo una serie di location sparse fra la Francia e l’Inghilterra (da Gourdon a Oxford) . Ennesima riedizione cinematografica di un musical di successo, sulla scia di esperimenti analoghi? Sì e no. Deciso a sfruttare le potenzialità espressive del medium cinematografico, Hooper osa ed esagera, optando per una messa in scena monumentale, che riproduce e amplifica le coreografie originali, con panoramiche dall’alto, dolly, storpiature grandangolari, inquadrature sghembe, avvolgenti movimenti di macchina che ammantano la vicenda di forza epica e di pathos drammatico. Un musical operistico, con brevi inserti recitativi e voci registrate in presa diretta (notevole il lavoro sul cast, assemblato dalla solita Nina Gold), che mescola star hollywoodiane (da Hugh Jackman a Anne Hathaway a Russel Crowe) e attori di teatro. Si procede per archetipi, oscurando i molti nodi tematici che emergono nel romanzo, per enfatizzare lo scontro mortale fra la legge e la grazia. Sullo sfondo (e l’amalgama di piccola e grande storia resta comunque un’utopia), ci sono le trasformazioni politico-sociali della Francia della prima metà del XIX secolo, il funerale di Lamarque, le barricate per le strade di Parigi e il sogno già perduto della rivoluzione del 1789. L’inevitabile alleggerimento della trama, con il sacrificio della maggior parte delle digressioni storiografiche, e la semplificazione della psicologia dei personaggi vanno a vantaggio di una costruzione narrativa che procede per quadri musicali, una polifonia di voci sovrapposte, di percorsi personali che si innestano e si sfiorano in un quadro grandioso. Il Valjean di Hugh Jackman, che si aggiunge alla fitta schiera di interpreti teatrali, è l’angelo della bontà, il santo martire che non chiede nulla per sé e si immola alla causa dei tanti miserabili che, come lui, sopravvivono ai margini di una società che non ha ancora raggiunto l’uguaglianza. Solo a lui appartiene il candore di chi ha conosciuto l’inferno e si è rialzato (“Who am I?”), simbolo vivente della parabola di caduta e redenzione che plasma la vicenda. “Voglio lasciare il mondo di Jean Valjean”, esclama (o, meglio, intona) lasciandosi alle palle il fango (l’enfatica apertura, con la macchina da presa che cala a capofitto, ondeggiando al ritmo del canto dei forzati) e la solitudine (le peregrinazioni negli immensi scenari naturali). Lo aspetta l’esistenza borghese di Monsieur Madeleine, la fabbrica e l’impegno civile. In mezzo la nostalgia di Dio e la grazia della redenzione. L’impossibilità di compiere nuovamente il male segna il carattere di Valjean, in perenne fuga da un se stesso ormai sepolto. L’implacabile ispettore Javert (un altrettanto canterino Russel Crowe) è la sua nemesi, il tutore di un ordinamento grigio e formale, incapace di superare la lettera della legge per guardare il mondo con occhi sgombri. Il confronto fra Valjean e Javert (“Till come face to face”, che gioca sul campo/controcampo), duellanti che si inseguono o si sfuggono a cavallo fra i decenni, incarna la dialettica fra bontà e giustizia, una battaglia che riproduce se stessa fino al momento in cui l’ispettore china il capo in segno di resa e getta la pistola nell’acqua che, di lì a poco, trascinerà via anche lui. “Look down Javert”, gli intima un Valjean pronto a sfidare la morte per salvare il semisconosciuto Marius. È l’invito pressante a guardare gli ultimi, i miserabili, il mantra che percorre il musical di Hooper, fin dall’ouverture con i forzati costretti a trascinare un galeone a mani nude. “Look down”, intonavano i carcerati in direzione del secondino Javert che li sovrastava in un’inquadratura dal basso. La morte dell’ispettore, che si suicida gettandosi nella Senna, vittima di un lacerante dissidio interiore, è una rivoluzione delle coordinate. L’uomo di legge, turbato dall’inaudita bontà di colui che da anni non fa che sfuggirgli, perde l’orientamento. Il suo mondo perde consistenza e si sgretola. Anche la prospettiva si capovolge ed è una ripresa dall’alto che schiaccia il Javert suicida. Perso il nemico di sempre, anche Valjean si ritira, allenta la tensione ed abbandona gli affanni del mondo, per entrare nello spazio dei beati, scortato dal fantasma della sventurata Fantine. A individui dilaniati dalla morale si contrappongono gli squallidi locandieri Helena Bonham Carter e Sacha Baron Cohen, cattivi da operetta cui sono affidate una serie di comiche divagazioni. Hooper fonde la retorica liberal-rivoluzionaria (le scene di massa per le strade di Parigi) al melodramma (la storia tragica di Fantine-Anne Hataway, quasi un romanzo nel romanzo; l’amore fra Cosette e Marius),
alternando i grandi quadri popolari (i carcerati, i poveri, i bambini di Parigi), che aprono i tre segmenti dell’esistenza di Valjean (il carcere, il successo borghese, l’autunno parigino), a monologhi intimisti che sviluppano le pieghe nascoste dei caratteri (i dilemmi morali di Valjean, i crescenti turbamenti di Javert, l’amore triste di Éponine). Pervaso da un’ineludibile artificiosità, il risultato è uno spettacolo per gli occhi, che a ogni movimento di macchina lascia intuire un afflato epico che a tratti coinvolge e commuove. Più che probabile che la prossima edizione degli Oscar non lo lasci tornare a casa a mani vuote.

Sofia Bonicalzi
Sofia Bonicalzi
Sofia Bonicalzi è nata a Milano nel 1987. Laureatasi in filosofia nel 2009 è da sempre grande appassionata di cinema e di letteratura. Dal 2010, in seguito alla partecipazione a workshop e seminari, collabora con alcune testate on line.

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