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L’incontro con Kim Ki-duk; il mio è un cinema delle cose che non si riescono a vedere

Nella cornice degli eventi organizzati da Ca’ Foscari Cinema, giovedì 6 settembre 2012, in occasione della 69° Mostra del Cinema di Venezia, Kim Ki-duk, non ancora insignito del Leone d’Oro, si è offerto di partecipare a un incontro con gli studenti dell’Università Ca’ Foscari. Evidentemente porta fortuna il laboratorio di idee e iniziative coordinato da Roberta Novielli, se già l’anno scorso protagonista di un incontro analogo era stato Alekandr Sokurov, a pochi giorni dalla vittoria del concorso veneziano col suo Faust. Indie-eye non poteva mancare l’appuntamento…

In passato ha fatto un’esperienza di volontariato con persone non vedenti, e allo stesso tempo viene in mente la scena di Ferro 3, in cui il protagonista Tae-suk spalanca la mano mostrando un occhio disegnato sul palmo. Per un artista che lavora con l’immagine, che significato ha il vedere e che significato ha il non vedere?

Sì, nel 1987 ho svolto attività di volontariato presso una chiesa che lavorava con non vedenti. Quasi tutti i membri della chiesa erano non vedenti. Ricordo che in quell’occasione ho potuto riflettere su ciò che poteva significare vedere e non vedere. Più restavo lì e più capivo che non c’era quasi differenza tra poter vedere le cose che si vedono e riuscire a vedere quelle che non si vedono. E mi sono reso conto in quella circostanza che pur potendo vedere molte cose, ci sono tante altre cose che non riusciamo a vedere. Quindi alla fine il mio è diventato un cinema della cose che non si possono vedere, o meglio, delle cose che pur guardando non si riescono a vedere. Così ho cominciato a raccontare storie di vite che noi normalmente non vediamo anche se si svolgono davanti ai nostri occhi. Ho capito che alla fine non ha tanta importanza il vedere o il non poter vedere: il disegno sulla mano del personaggio di Ferro 3 forse è una conseguenza della mia esperienza con i non vedenti. E anche il mio ultimo film mette in luce questo aspetto, sebbene in realtà il tema centrale è il denaro, il rapporto che abbiamo con esso e i problemi che provoca.

Una cosa che colpisce immediatamente dei suoi film è la quasi totale assenza di dialoghi e rumori che vanno per la maggiore nei film occidentali. Qual è il motivo di questa scelta?

Nel cinema di Woody Allen, per esempio, c’è molto dialogo e credo che sia una cosa molto bella, adeguata a quel che lui vuole comunicare. Io al contrario credo che esista un linguaggio del corpo, da non confondersi con il body language classico. Il comportamento, la luce che brilla negli occhi, le varie espressioni: anche questi sono linguaggi, anche questo è parlare. Nella nostre parole molto spesso c’è qualcosa che può trasformarle sempre in bugie, mentre le parole dette attraverso il corpo non mentono, o almeno è molto più difficile che riescano a mentire. Tra i vari linguaggi che noi umani parliamo c’è quello del sorriso e quello del pianto, che ritengo essere i più importanti in assoluto. Credo che questo tipo di linguaggio e un po’ di action siano i due soli ingredienti necessari per un film. Credo che film come L’isola, Bad Guy, Primavera… e Ferro 3 siano abbondantemente capaci di parlare, pur non avendo dialoghi. Sono convinto, inoltre, che con meno parole il cinema possa diventare addirittura ancora più potente, più efficace nel veicolare significati, rispetto a un film verboso. Questo non vuol dire che io sia prevenuto nei confronti del cinema basato su una grande quantità di parole o suoni, perché anch’io nel mio ultimo film ho introdotto una maggior ricchezza di parlato e sonoro: proprio perché ho ritenuto che in quel caso fossero importanti, utili all’intento.

Nel suo ultimo film si tratta il tema della vendetta. Come si pone nei confronti di questo sentimento e come si pone rispetto al trattamento che ne ha fatto il suo collega e connazionale Park Chan-wook,  che alla vendetta ha dedicato una trilogia?

Non vorrei dire molto sul film perché altrimenti rovinerei la sorpresa a chi non l’ha ancora visto. La vendetta di Park Chan-wook è molto diversa da quella di Pietà. In Pietà c’è un tipo di vendetta molto spaventosa.

All’incirca una decina di anni fa ha affermato che la religione era soltanto un costume, un qualcosa che diventava utile a fini consolatori, ma non ne vedeva appunto alcuna possibilità salvifica. Dopo il travaglio di quel periodo difficile che pressappoco è andato da Dream ad Arirang che tipo di approccio ha maturato nei confronti di questi temi, già trattati in precedenza in film come Primavera, Estate, Autunno, Inverno e ancora Primavera o La samaritana, per fare due esempi?

Poco fa ho detto qualcosa ha proposito della vendetta che si vede in Pietà. Mi sono chiesto varie volte se la vendetta più spaventosa non sia in effetti proprio la vendetta che non viene esibita, la vendetta che non vede la propria realizzazione. A partire da Dream fino ad Arirang, ovviamente c’è stata una intensa ricerca interiore e mi sono reso conto che la migliore vendetta è il non trovare la vendetta, non portarla a compimento nelle sue estreme conseguenze. E’ la stessa cosa che si racconta nel mio ultimo film. Tutto ciò si ricollega al mio rapporto con la religione, che  è un andare a recuperare una dimensione di perdono verso un torto subito. Quando è uscito La samaritana mi è stato detto che ero protestante; con Primavera… mi è stato detto che avevo fatto un film sul buddhismo e così per Pietà mi sono sentito dire che è un film a tema cattolico, ma io non sono d’accordo. Se penso alla religione, penso a un ingrediente della vita. E la vita è come una pietanza per la quale però servono diversi ingredienti. Una volta l’ingrediente può essere il cristianesimo, una volta il protestantesimo, un’altra il buddhismo. Ci possono essere tanti ingredienti che confluiscono nella vita. Personalmente non seguo una sola religione in particolare. Non credo che la religione debba essere preminente alla vita. Forse i credenti fondamentalisti, i più convinti della supremazia della religione sulla vita potranno arrabbiarsi per alcuni miei film, ma io continuo a credere  che la vita non possa essere guidata dalla religione.

Nel suo cinema gli spazi, i luoghi, gli ambienti ricoprono un ruolo molto importante. Ci potrebbe raccontare come lavora in fase di ricerca della location, e soprattutto come si rapporta ai luoghi?

E’ vero, nei miei film lo spazio è molto importante. Penso al lago dell’Isola, a quello di Primavera… al centro del quale si trova il tempio del monaco, agli ambienti di Ferro 3 che cambiano di continuo, di appartamento in appartamento, fino a Pietà dove troviamo lo spazio del lavoro con schiere di fabbriche. Lo spazio nei miei film è una entità vivente, esattamente come gli attori. Gli elementi che compongono lo spazio mi parlano e mi comunicano ogni volta qualcosa di diverso. Lo spazio di Pietà racconta e contiene la memoria dell’industria coreana, è la culla dell’industria automobilistica: è là che si crearono i primi pezzi per l’assemblaggio di vetture. Ma quello è anche uno spazio che preesisteva ancor prima di noi, che contiene molte cose, ci sono ancora moltissimi odori che sono rimasti nei secoli come tracce che ci raccontano la storia di quel posto. Portando all’estremo questa mia convinzione, si può dire che il vero protagonista dei miei film sia proprio lo spazio.

Ci può parlare dei due protagonisti di Pietà, Kang-do e la “madre”: come ha sviluppato il disegno dei personaggi e come ha lavorato sul corpo degli attori?

All’inizio la “madre” si reca da Kang-do con l’unica volontà di vendicare suo figlio, che vediamo suicidarsi nella prima scena del film. E’ un personaggio fortemente ambivalente. A un certo punto si accorge che Kang-do non è mai cresciuto: un ragazzo che probabilmente non riuscirebbe nemmeno a capire la vendetta in sé e la disperazione che l’ha provocata. In realtà scopre che egli stesso, per certi versi, è quasi indifeso perché non ha mai avuto una famiglia ed è sempre vissuto nella più cupa solitudine. Alla fine lei arriva percepirlo come un figlio.

Lee Jeong-jin, che interpreta Kang-do, proviene dall’esperienza dei drama, storie molto tranquille, romantiche. È un attore molto amato dalle donne in Corea. Non aveva alcuna esperienza con personaggi violenti e crudeli. In questo film ho voluto fare tabula rasa di questi modelli a cui era legata la sua immagine. Ho voluto svilupparlo in due direzioni parallele: da una parte come shark loan, dedito ai pestaggi e alle più feroci atrocità; dall’altra come un ragazzo che vive alla giornata, che ancora non ha trovato la sua identità.

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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