Il cinema italiano contemporaneo è un prodotto multiforme, prevedibile e imprevedibile al tempo stesso, che quando tratta di attualità riesce, consapevolmente o no, a dirci molto. I capolavori sono imperituri, un film come “L’industriale” è periturissimo e senza perdersi in troppi formalismi punta a far discutere, a far capire, ad ampliare la visione di una crisi economica che è in primo luogo precarietà esistenziale (a cosa serve l’intellettuale se non a darci una prospettiva “altra”?). L’ottuagenario Giuliano Montaldo decide, come in altri suoi film, di analizzare un individuo singolo come cartina al tornasole di un intero sistema, che non viene esposto né tantomeno spiegato; è una cosa che a Montaldo non interessa, con buona pace di chi desiderava un pamphlet “indignado”. Nella storia di Nicola (Pierfrancesco Favino), imprenditore torinese alle prese con la crisi della sua fabbrica e del suo matrimonio, emergono temi forti e trasversali, elementi drammatici di una crisi della quale oltre che sulle cause occorre interrogarsi seriamente sugli effetti. È da qui nasce l’urgenza espressiva del film, urgenza che non può non indurre a una certa indulgenza su alcune goffaggini. Montaldo è convinto che sia il noir lo stile necessario per esprimere l’ambiguità del protagonista, la sua fallibilità, la sua impotenza, la sua paranoia. Un noir un po’ sbavato, certo, con una fotografia inutilmente estrema (una desaturazione spinta che, priva di modulazione, alla lunga si rivela monotona e artificiosa), una colonna sonora televisiva convenzionale ed una serie di personaggi e sottotrame che aggiungono fastidiosi piccoli enigmi irrisolti a un personaggio che enigmatico ed irrisolto lo è già abbastanza di suo. È nei contenuti, però, che Montaldo, pur con alcuni ammiccamenti gratuiti al pubblico “impegnato” (l’onestà e l’integrità morale del garagista rumeno, l’indifferenza delle istituzioni nei confronti della green economy), delude coraggiosamente le aspettative di quello stesso pubblico lasciando le manifestazioni e i problemi degli operai fuori, talvolta fuori campo, talvolta in campo ma oltre la barriera individuale del finestrino della macchina: Nicola vede e non capisce, fatica a considerare il suo dramma come collettivo e lo spinge nell’individualismo, riconducendolo piuttosto ad un conflitto familiare irrisolto. Incomunicabilità ed interiorizzazione di una crisi che è sistemica e totalizzante (viene alla mente il primo Antonioni), ma anche impossibilità di un riscatto, vanificata nello scatto di orgoglio. Nemmeno la furbizia, usata per risolvere sia la situazione lavorativa che quella sentimentale, può costituire un valido rifugio, mostrando i suoi limiti e la sua inconsistenza nel doppio colpo di scena finale (lucida metafora, forse inconsapevole, di come la tanto sbandierata creatività “made in Italy” alla fine non sia che un confortante simulacro: il sistema non può che reggersi, finché può, sulle spalle di chi ci ha preceduto). Nicola è un personaggio ambiguo, teso tra razionalità e istintualità, onestà e furberia, volontà di realizzarsi e apatia, spinta verso il progresso e nostalgia di un mondo che non c’è più, un mondo che come la vecchia officina del padre non è altro che un rudere in rovina. Era la Torino del boom economico, di cui quella messa in scena da Montaldo non è altro che il fantasma che vaga confuso in cerca di un appiglio, di un momento di fiducia in un futuro che non c’è più. L’isolamento finale del protagonista, che bluffando pensa di vincere la partita per poi scoprire che il tavolo è truccato, è la conclusione naturale di questo non-moto. L’industriale è grande cinema, quello pieno di imperfezioni, quello un po’ così, all’italiana, che magari non resterà negli annali ma in fondo chi se ne frega.