giovedì, Dicembre 19, 2024

Love is all you need di Susanne Bier

L’atteso ritorno di Susanne Bier all’indomani dell’Oscar come miglior film straniero e del Golden Globe per In un mondo migliore (2011), sorprende e non delude affatto. A sorprendere è il tono e il colore acceso e solare del suo nuovo film, che riprende i temi e lo stile già consolidati dalla regista danese nei drammi familiari precedenti, compattando questa nuova storia corale in un ritmo serrato e in una chiave brillante che esalta il peculiare tratteggio psicologico dei vari personaggi. Quasi che l’orchestrazione in battere dei drammi precedenti sia in questo caso tutta in levare, in un controcanto che forse meglio si addice alla vena agrodolce della regista danese. Considerando che il lato meno convincente delle sue trame drammatiche era, tutto sommato, il finale riconciliatorio (dall’agro al dolce, appunto), alla Bier lavorare sul rovescio dell’ordito parrebbe riuscir meglio. Come a dire: dando per presupposto il dolce della commedia sentimentale si è prodigata nell’agro e nell’asprigno prendendo a simbolo della sua storia il limone. E su questo frutto la Bier ha costruito, peraltro, uno dei dialoghi più riusciti e la metafora più delicata del film che ne racchiude tutto il senso: un albero di aspri limoni, con vari innesti, può produrre anche dolci arance. Cosa che, dentro e fuor di metafora, ci porta al succo della storia.
Tutto comincia con i preparativi di un matrimonio. Ed è questa la prima novità. Infatti se in Dopo il matrimonio (2006) la reunion famigliare scatenava il dramma, in questo caso le cose vanno storte fin da principio e su tutti i personaggi aleggia una nube di amarezza: il triste compleanno di Philip (Pierce Brosnan) un ricco vedovo scontroso, trincerato da anni nel dolore per la perdita della donna amata; l’ultima seduta di chemioterapia di Ida (Trine Dyrholm) che rientra a casa e trova il marito con una sciacquetta bionda con cui poi si accompagnerà alle suddette nozze; il fratello della sposa spedito al fronte; i due promessi che aprono la villa della futura cerimonia e si ritrovano davanti un rustico da ristrutturare in pochi giorni, oltre a verità scomode da affrontare tra loro. Il climax della storia è raggiunto con la famiglia riunita nella villa italiana di Philip. La scena corale del ballo scatenato alla vigilia delle nozze svela il carattere autentico dei vari personaggi. La cerimonia sarà l’occasione per sradicare tensioni sotterranee e innestare nuovi germogli che la sceneggiatura di Anders Thomas Jensen, storico collaboratore della Bier, farà crescere verso il finale, dove Ida e Philip, superate le proprie paure, si ritrovano uniti.
Se il motto di ogni commedia che si rispetti è che non tutti i mali vengono per nuocere, ciò vale ancor più in questo caso: a spiccare non è tanto l’originalità della storia e tantomeno il rocambolesco modo di dirimere i nodi intrecciati ad arte, perché ciò che conta veramente, trattandosi di Susanne Bier, è mostrare la forza di reazione alle avversità, la capacità di ripresa e di evoluzione che hanno potenzialmente i personaggi. E qui Ida, la sua protagonista, è il centro gravitazionale della storia. La sua solarità e la sua forza sono esaltate dalla splendida interpretazione della Dyrholm, che curiosamente ritroviamo con un ruolo opposto a quello del film precedente dove era Marianne, un medico in crisi matrimoniale e in pieno panico nella gestione del figlio adolescente. Qui muove invece corde attoriali positive, di grande energia e risolutezza: a lei il compito di consolare la figlia in crisi e soprattutto di affrontare la malattia ritrovando la propria immagine allo specchio (rifiuta la plastica ricostruttiva al seno, indossa con disinvoltura la sua parrucca a coprire i segni della chemio). Il titolo originale, La parrucchiera calva (Den skaldede frisør), appare perciò più riuscito della sua versione export Love is all you need.
Sviluppati in modo alternativo al dramma sono anche i temi cari alla Bier: la crisi di identità che nasce nello scontro tra i valori e la prassi; la supplenza dei ruoli famigliari con la genitorialità naturale messa in discussione a favore delle relazioni elettive; l’incomunicabilità tra generazioni. Riconoscibile anche la cifra stilistica della regista danese che nella commedia integra e giustifica con maggiore efficacia alcuni espedienti formali dei suoi drammi: lacerti di Dogma applicati con maggiore discrezione e più efficacemente calibrati in senso emozionale, oltre che ironico (il trasporto del materasso tra i due futuri amanti omosessuali, lo scontro tra le due auto dei futuri amanti mancati consuoceri – quasi rifrazioni subliminali di sommovimenti emotivi inconsci). Gli inserti naturalistici che in passato peccavano di un certo velleitario astrattismo acquistano ora funzionalità semantiche più coese alla storia. Nella fotografia dai toni vividi e saturi, prevalgono i colori primari. Nell’incipit il giallo dei limoni (simbolicamente associato al pericolo e al mutamento), che trasmuta nel rosa e nel rosso dei vestiti di Ida (la scoperta dei sentimenti e la consapevolezza delle emozioni) per dissolversi nel blu della scena finale davanti al mare (la serenità acquisita). Non meno significativa la location, usata ancora in senso inverso rispetto al dramma: dopo l’Afghanistan (Non desiderare la donna d’altri), l’India (Dopo il matrimonio) e l’Africa (In un mondo migliore) come ‘luoghi di autenticità’, ambienti estremi che scuotono la coscienza e mettono a nudo i limiti dei personaggi, a fungere da detonatore (stavolta positivo) delle tensioni latenti è l’Italia, si direbbe ‘luogo della sincerità’, della messa a nudo delle proprie fragilità (il bagno marino di Ida, nuda e senza parrucca; Philip che confida il suo lutto irrisolto dando le spalle alla parete antica e sbrecciata del bar Sorrento; lo scontro tra padre e figlio nella grotta marina, uterino rimando alla madre assente). La scena in cui il ragazzo sorrentino palesa la sua omosessualità con un appassionato bacio allo sposo è la cifra narrativa che mostra come l’ambiente attragga quasi magneticamente i personaggi favorendone lo svelamento delle più intime emozioni. Apprezzando l’equilibrio dei risultati e il delicato ritmo brioso che ne risulta c’è proprio da augurarsi che questo film sia la prima opera di un nuovo corso, piuttosto che una mera parentesi ricreativa.

Catia Renna
Catia Renna
Catia Renna ha studiato slavistica alla Sapienza di Roma, dove ha conseguito un dottorato di ricerca. Ha tradotto le opere di Viktor Pelevin. Ha lavorato come consulente e addetta stampa per alcune produzioni cinematografiche russe e italiane. Ha pubblicato uno studio sull’immaginario letterario russo nel cinema gotico di Mario Bava. Vive a Milano.

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