Dieci giorni prima dell’uscita ufficiale di Man of Steel nei cinema statunitensi, Zack Snyder ha presentato il suo ultimo film a 500 studenti dell’Art Center College of Design di Pasadena, ospitati per l’occasione nei cinema ArcLight. Durante il workshop il regista Americano ha raccontato, non senza ironia, come il 3D per lui fosse sostanzialmente una cospirazione architettata per distruggere la pellicola. Man of Steel non è stato infatti girato in digitale, ma in 35mm anamorfico, arricchito con circa 1500 VFX in post-produzione e gonfiato solo successivamente in 3D negli studi della Legend3D, un lavoro che lo stesso Snyder, per ragioni anche promozionali, ha definito in relazione al suo stile come un intervento assolutamente congeniale e naturalistico.
La terza dimensione di Man of Steel non esonda mai al di qua dello schermo, punta al contrario verso uno spazio infinito senza cornice, rimanendo in contatto con la fisicità di corpi e dettagli grazie ad una radicale prossimità ottica e allo stesso tempo rendendo instabile l’orizzonte periferico dell’immagine. Ne avevamo già parlato per Prometheus di Ridley Scott, film che affrontava con s-fiducia il 3D sovrapponendo archeologia e futuro con un riferimento più che esplicito a quella materializzazione mutante dello spazio che si verifica con l’inclinazione della luce sulle immagini formate dai sistemi delle lenti lenticolari, siano queste le vecchie cartoline che già conosciamo o il futuro preconizzato dalla AU Optronics.
C’è quindi certamente una forma di resistenza nel cinema di Zack Snyder, che è già originariamente tridimensionale senza la reale necessità di ricorrere ad alcun additivo steroideo, e allo stesso tempo una visionaria riflessione sulle possibilità di un nuovo cinema espanso che neanche l’ingombrante presenza pseudo-filosofica di Christopher Nolan riesce a vanificare. Se in relazione ad un gingillino come Inception, Snyder si poneva già in antitesi rispetto a quel meccanicismo degli Innesti con un film come Sucker Punch , apparentemente ancorato alla dinamica del role playing nella dialettica tra valore espositivo dei nuclei narrativi e la loro successiva esfoliazione, ma in realtà fortemente nomadico in quello sfaldarsi continuo dell’immagine entro un processo mutuale che scambiava l’atto del guardare e dell’esser visti con la proiezione di corpi, oggetti e riflessi provenienti da una quarta, quinta.. dimensione; una volta liberati gli ormeggi dal peso del racconto o semplicemente da quello di un residuo strutturale talvolta quasi post-rave, si arriva a Man of Steel già completamente dentro la dimensione dell’occhio contemporaneo, con una riflessione che si interroga sui limiti dello spazio visivo nella relazione tra cornice del dispositivo e sguardo, e sul modo in cui la prima diventa essa stessa un prolungamento percettivo, un occhio privato che muta in occhio connettivo , sia che si tratti di uno smartphone o di uno schermo IMAX da venti metri, ma che drammaticamente deve muoversi per catturare il movimento performativo, quando questo sfugge dai margini e rompe i confini del quadro.
Una questione, legata all’impossibilità di inquadrare in un contesto già aumentato, non solo dai dispositivi di condivisione sociale di massa, arti privati e ravvicinati rispetto ad un’esperienza personale con oggetti che diventano instagrammi, ma anche al modo in cui set reali e virtuali, footage aeree e di libero movimento e il corpo performativo degli attori immersi nel limbo del Green Screen mentre lottano con una materia invisibile, come ha raccontato in molte interviste e con un certo fastidio lo stesso Michael Shannon, contribuiscono alla formazione di un’immagine che non è più contenibile in un unico framework.
Che significato ha allora, ricorrere ad un occhio che lo stesso Snyder per sua diretta ammissione, ha voluto definire come “realistico”, dal momento in cui decideva di utilizzare soprattutto le camere a mano, se non questo contrasto tra la prossimità, quasi macrofotografica, al dettaglio e l’annebbiamento percettivo di tutti i margini, ben presenti sin dalla prima sequenza della messa al mondo di Kal-El, come negazione dello stesso principio fondativo degli schermi IMAX, a partire dalla loro archeologia storica alla fine degli anni ’50 come Cinemiracle e Cinerama, ovvero quello legato all’illusione di poter contenere tutta la “realtà” dentro una cornice sempre più ampia, sempre più curva, sempre più chiusa in fondo, lasciando fuori, illusoriamente, ogni rischio che la visione potesse diventare periferica.
Nel cinema di Zack Snyder la curvatura è invece quella di un tempo-spazio che è irrimediabilmente oltre i limiti del frame perchè il regista Americano mette letteralmente a soq-quadro un modo di vedere che è diventato nostro soprattutto grazie all’offerta industriale, con una coerenza sorprendente, servendosi di un mezzo per rovesciarne gli obiettivi e le convenzioni percettive, sbarazzandosi presto sia degli obblighi legati al franchise DC Comics che al peso dell’ “intelligenza” Nolaniana. Da una parte L’uomo d’acciaio ha una prossimità intima (per Snyder, “realistica”) con il movimento incerto dei sentimenti familiari, avvicinando questa instabilità dell’immagine a quella dell’ultimo Malick; su un altro livello affida quasi un recinto Mélièsiano all’elaborazione di alcuni, splendidi, morphing CGI nella rappresentazione storica dell’universo che viene fatta due volte nel corso del film, in una reinvenzione delle origini della visione cinematografica che accomuna altri visionari del digitale come l’ultimo Raimi, o il Luhrmann del Grande Gatsby.
Ma su un piano più estensivo, il cinema espanso di Snyder diventa tale dal momento in cui comincia a mettere in relazione i corpi con la forma trasparente del movimento, in un modo cosi selvaggio e cosi disinteressato alla retorica del racconto da averci fatto pensare quasi agli esperimenti più ludici dei Chroma key televisivi anni ’80. Che non sembri irriverente, per noi non lo è affatto, ma quando ormai il movimento è già diventato inafferrabile per la finestra IMAX e per il nostro occhio, Kal-El (Henry Cavill) sta volando su un paesaggio urbano che si sfalda e a un certo punto lo vediamo comparire su una skyline rovesciata, in una forma sovrapposta, imperfetta e selvaggia che ci ha fatto pensare a La strada Brucia, un vecchio video degli anni ’80 realizzato per Alan Sorrenti, dove il cantante Napoletano, grazie alle possibilità giocose del Chroma, fluttua su un’immagine di Los Angeles senza senso e senza racconto. Ma c’è ovviamente di più, oltre a questa mancanza di gravità, gli snap zoom che Snyder sembra aver messo a frutto da tempo grazie anche ad un’applicazione più fisica di quelli intuiti per primo da Joss Whedon (Firefly), sono estensivi al punto da diventare una protesi visiva degli stessi corpi in un’accezione fisica del movimento che è parte delle loro facoltà ma anche un atto disperato dell’occhio di recintarlo rilevandone al contrario vuoti e punti ciechi; mentre un intero orizzonte si sfalda, lo sguardo si ferma per un attimo proprio in quel punto dove l’azione ormai è già altrove; non è semplicemente il motore delle motion graphics nella possibilità di scansionare l’immagine e di farla “traballare” in un effettino esteticamente bello e riconoscibile, ma questo dialogo tra più livelli di cui parlavamo prima, che fa de L’uomo d’acciaio un portentoso e drammatico tentativo di creare uno spazio dell’immagine libero e inafferrabile, come l’illusione di aver visto una meteora al posto di Superman.