Trasferitosi a Roma in cerca di fortuna come attore, il catanese Pietro Ponte si mantiene facendo il pasticcere. Prende in affitto a pochi soldi una vecchia casa romana, intorno alla quale gravitano strane voci e, come ben presto scoprirà di persona, strane presenze.
Con Mine vaganti il cinema di Ferzan Özpetek aveva dimostrato nuove insospettate possibilità, addomesticando vanità autoreferenziali a beneficio di un maggior interesse per i meccanismi narrativi. Non una sterzata in altri scenari, ma una maturazione che confermava e raffinava la poetica del regista. Magnifica presenza, pur continuando positivamente su questa strada, non riesce ad eguagliarne il risultato, a causa di alcune impennate velleitarie. Il tema dell’apertura all’alterità, che da sempre caratterizza il cinema del regista, in questo ultimo film assurge al simbolico: gli spettri pirandelliani insediati nella casa trovano in Pietro il loro autore e divengono per lui il catalizzatore per la comprensione di altre vite, di altre epoche, altre dimensioni dell’esistenza. Özpetek delinea un protagonista (Elio Germano in gran forma, perfettamente a suo agio nell’inflessione catanese) che ha i tratti della persona irrisolta, alla ricerca di solidità affettiva e ispirazione creativa.
Attraverso la sua ricettività e apertura al cambiamento accetta di aggregarsi alla famiglia di attori ectoplasmatici (si ritorna, così, a quello spirito conviviale, a quel piacere della condivisione di sorrisi e nevrosi, tipici del regista italo-turco), cedendo al suo fascino signorile primo Novecento e porgendo l’orecchio per cercare di apprendere i segreti dell’arte recitativa. Nonostante ciò, le premesse lasciavano sperare in una coesione superiore e in una maggior profondità nell’affrontare il tema della creazione artistica. Efficace il discorso sull’arte come terapia catartica; piuttosto acerbo, invece, lo sviluppo della dialettica realtà-finzione che, dopo una partenza allettante, si adagia su un livello di superficie, intrecciandosi con riflessioni sulla memoria, le stesse su cui Özpetek era già inciampato ai tempi de La finestra di fronte. Sul piano visivo sono sapientemente elusi tutti gli espedienti dozzinali che solitamente popolano le ghost story, a favore di una asciuttezza stilistica e di un tono ironico, da commedia sofisticata. Questo aspetto e un miglior controllo dell’immagine, già palesata con Mine vaganti, sono però elementi da vedersi in prospettiva, come una promessa per la crescita futura del regista che, fino a Saturno contro, si era interessato unicamente a questioni contenutistiche. Per questo gli si perdonano alcune cadute nel pacchiano (la visita nella sartoria di Badessa, interpretata da Platinette che fa il verso al Brando di Apocalypse Now) e qualche ammiccamento almodovariano di troppo (l’incontro del travestito linciato che poi sciorina perle di saggezza): si ha quasi la sensazione che siano debolezze e fragilità connaturate a un periodo di transizione. Come se Özpetek debba ancora prendere bene le misure di un progetto creativo più ambizioso e sostenga la sua struttura artistica con impalcature di sicurezza. Si spera ancora per poco, vista la moltitudine di segnali incoraggianti di cui Magnifica presenza dà prova.