Delepine e Krevern, dopo l’affermazione internazionale con Louise/Michel , continuano a calarsi nel ruolo di cinici e sogghignanti cantori della sgradevolezza, affrescando ancora una volta un Belgio in disarmo sociale, popolato ad ogni livello da un’umanità patologica ed universalmente emarginata impegnata in avventure surreali e parossistiche per ottenere i diritti basilari di sussistenza. Mammuth è il soprannome del massiccio protagonista del film, capelluto pachiderma sgraziato e inoffensivo alle prese con il passaggio dall’alienante lavoro di una vita in un macello alla condizione di pensionato inetto e spaesato, trovatosi a pesare sulle spalle della moglie a sua volta esasperata dall’impiego da cassiera. Mammuth è anche il modello della sua vecchia moto da collezione, in sella alla quale partirà per un viaggio alla ricerca di vecchi datori di lavoro in grado di fornirgli la documentazione dei trimestri mancanti per ottenere una pensione decente. Spronato dalla moglie che condivide la sua sommessa disperazione, perseguitato con affetto dal fantasma di un’amante morta, adottato da una nipote dissociata e ossessionata dal macabro, Mammuth ritroverà grazie alle sue muse una rinnovata vitalità, in uno sghembo lieto fine di accettazione di sé che non dissipa però il sapore amarissimo del viaggio appena compiuto. Appollaiati sulla nuca lanosa del protagonista, lo accompagneremo in una bislacca odissea trapuntata di humour nero e disperato, tra infartuati smossi a colpi di baguette, giardini di bambole sfigurate, piscine utilizzate come zattere ed ostili professionisti del metal detector da spiaggia. Affidandosi alle (dis)fattezze fisiche di un Depardieu mai così funzionalmente sformato, i due cineasti fiamminghi non parlano tanto della precarietà del lavoro o del fondo pensione, quanto di quella precarietà di corpi e cervelli che ne è alla base. In qualche misura imparentato con i ruderi sub-proletari di Ciprì e Maresco e i sobborghi disfunzionali di indipendenti a stelle strisce come Korine e Solondz, questo cinema ci parla di esistenze disarmoniche intente a maneggiare strumenti socioculturali che gli sono drammaticamente estranei: non è un caso se il film (come accadeva anche in Louise/Michel) si apre su una cerimonia gestita e percepita con palpabile imbarazzo e goffaggine, per poi proporci più avanti un colloquio in cui è difficile stabilire chi sia più squilibrato tra l’intervistata o l’intervistatore. Agli interessanti elementi tematici già mostrati in precedenza, si aggiunge in questo caso una curiosa eterogeneità fotografica, che alle tonalità autunnali proprie di un certo cinema mitteleuropeo alterna inserti onirici sgranatissimi ed eccentriche soluzioni registiche (tremolanti e sfocate immagini in movimento per trasmettere la sensazione del viaggio) girate in bassissima fedeltà digitale. Delepine e Krevern, anche su questo fronte, dimostrano un’invidiabile ed evidente vitalità di linguaggio, capace di risultare anticonvenzionale e destabilizzante senza essere snob o del tutto indigesta ad un pubblico che non si riconosce nella nicchia degli intenditori.