Parlare di Rashōmon a sessantun anni da quella Mostra del Cinema di Venezia che aprì all’Occidente le porte di una cinematografia pressoché sconosciuta, e farlo dopo la mole enorme di contributi, esegesi, proposte ermeneutiche fiorite negli anni, é impresa ardua e insieme intrigante, per chi la compie e per chi legge. Al lettore esigente e allo spettatore appassionato di cinema dell’Estremo Oriente, e non solo, la rilettura di Rashōmon condotta con l’acume d’indagine della recente pubblicazione di Marco Dalla Gassa rinnova il piacere della visione, poiché libera il film da incrostazioni e interpretazioni non di rado estranee allo spirito dell’opera.
Rashōmon é un film che ha travalicato i confini di tempo e di spazio, e un punto di vista critico che si risolva in un approccio non convenzionale, suffragato da un’indagine elaborata con strumenti esegetici di robusta affidabilità, sguardo scevro da pre-condizionamenti ideologici e sicura conoscenza di quella realtà culturale non può che attrarre. Il testo di Dalla Gassa risponde a questi requisiti. A ciò, ed é valore aggiunto di non poco conto, unisce la felice dote della “leggibilità”, rara avis in tempi di cripticità del linguaggio critico, carattere spesso, e a torto, assunto come segno di valore. L’autore di Kurosawa Akira – Rashōmon si addentra con chiarezza di intenti e immediatezza di linguaggio nella lettura di un film che fa della “infinitezza” il suo tratto distintivo, conduce il lettore a districarsi nella matassa delle interpretazioni che ne hanno costellato, spesso travisando, la storia fin dal Leone d’Oro del ’51, e dimostra con rigore speculativo l’assunto di base: l’ambiguità di Rashōmon.
Rashōmon è, in definitiva, “un film infinito e senza fine”. Le tesi interpretative che si sono affastellate, sovrapposte, allineate nei decenni, vengono passate in rassegna con un lavoro minuzioso di analisi e, di volta in volta, il castello viene smontato in quel che ha di precostituito e non adeguatamente rispettoso della vera intenzionalità dell’opera. Di capitolo in capitolo l’attenzione alla riesumazione della sostanza autentica del film é sempre stringente, a partire dalla sua genesi (le fonti storiche, culturali, letterarie), passando per le condizioni socio-ambientali di lavoro del regista in quel momento critico di storia del Giappone, fino ad arrivare al découpage dell’opera nelle sequenze fondamentali, negli snodi cruciali, in tutti gli elementi costitutivi (linguaggio, montaggio, tecnica di ripresa, elementi fonici e fotografici) utili ad un lavoro di “restauro” critico onesto. Ne risulta un affresco che, proprio per la sua completezza, non lascia margini a confutazioni che facciano arretrare al vecchio repertorio critico. Lo sguardo, non viziato da occidentalismi né da orientalismi, restituisce senso non deviato a quella forma sottilissima e complessa di indecifrabilità che Kurosawa trasmette al suo universo cinematografico e di cui Rashōmon é l’apice. Avventura affascinante lungo i territori del film, in Kurosawa Akira – Rashōmon la correttezza di metodo è sostenuta da conoscenza profonda di filmografie dell’Estremo Oriente e intelligenza partecipe di quella cultura non ancora abbastanza compresa in altre latitudini.
Ciò che accadeva nel ’51, in dimensioni macroscopiche e con risvolti anche esilaranti (nella breve antologia critica in appendice si citano vari esempi di quella “giostra ermeneutica”) continua a riproporsi anche in tempi più recenti, mentre “l’effetto di straniamento e di instabilità comune a vari tipi di pubblico” nella percezione del film, afferma Dalla Gassa, dovrebbe “convincere a non confidare troppo su quel che captano occhi e orecchie e sulla capacità di filtro e decodifica dell’attività cerebrale”. Oggettività e soggettività, invece di divaricarsi nell’universo diegetico di Rashōmon, si permeano a vicenda, con quello sfumare dell’una sull’altra “…in linea con una tendenza abbastanza comune nel cinema nipponico e, più in generale, nella sua cultura figurativa.” S’impone dunque, al critico e allo spettatore, uno sforzo estremo di correttezza per non incappare in una via “razionale, ragionevole, deduttiva che lo porti ad una soluzione certa del mistero”. In linea con tale affermazione, si può perfino arrivare a mettere in dubbio, almeno in parte, il proprio “eretico” punto di vista, fino a quel momento affermato con convinzione. E’ quanto Della Gassa fa nell’ultima nota dell’ultimo capitolo, Rashō-mon-amour.Una conclusione, allorché comincia col dire: “A parziale smentita di quanto andiamo dicendo, occorre segnalare un aspetto perturbante mai notato da alcun commentatore…”. Inizia a questo punto un découpage di alcune sequenze, messe a confronto con quella famosa, finale, del monaco e del taglialegna occupati con il fagottino del bambino abbandonato sotto la Porta di Rashō. E’ il momento di maggior coerenza con quanto l’autore ha corrosivamente dimostrato nel corso dei capitoli precedenti, l’affermazione, cioè, oltre ogni ragionevole dubbio, dell’impossibilità di ingabbiare Rashōmon dentro confini ermeneutici solidi e stratificazioni di senso inoppugnabile. Quando questo sta per accadere, o sembra che stia per accadere, si aprono immediatamente altre prospettive interpretative, ed è quello che il critico riesce a dimostrare fino alla fine, arrivando a confutare la sua stessa posizione. Non resta allora, dice l’autore, che incespicare, come il boscaiolo nel bosco, “in un proprio personale ed emotivo e impressionabile piacere della visione, perché è il territorio ambiguo, l’”aimai” formale, narrativo, enunciazionale di Rashōmon che lo richiede”.
Lavoro prezioso, dunque, per tornare ancora una volta a Rashōmon, e approdo necessario per chi voglia, sì, abbandonarsi al piacere della visione, ma certo con occhiali migliori.