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Mary and Max – di Adam Elliot: recensione

Esordio nel lungometraggio dell'animatore australiano Adam Elliot, autore fin dalla metà degli anni '90 di una serie di corti umoristici girati con la tecnica del passo-uno, che raccontano il buffo e scomodo universo di personaggi affetti da handicap o malattie mentali. Mary & Max prosegue lungo il medesimo solco tematico, raccontandoci l'amicizia epistolare, nata per caso e proseguita per vent'anni, tra un'occhialuta bimba australiana e un misantropo newyorkese affetto dalla Sindrome di Asperger

Non c’è dubbio che sia una creatura anomala, il Milano International Film Festival. Corpo volutamente estraneo al giro dell’Italia festivaliera, sopravvive anno dopo anno alla sua condizione di serenata al cinema nella città della televisione, schiacciato nella morsa settembrina da Venezia e Roma e cementato da aperitivi, concerti, ed eventi collaterali che tentano di tenere in piedi la fragile impalcatura di un concorso spesso figlio di un cinema minore. Ma proprio la consapevolezza di questa condizione di outsider permette a volte di sottrarsi dalla logica dell’esclusiva ad ogni costo, facendo sì che nel setaccio del MIFF resti ogni anno impigliata qualche perla, seppure di seconda mano. Per quest’edizione è toccato a Mary & Max, gioiellino di plastilina già passato dal Sundance e da Berlino, dove ha perfino rimediato una Menzione Speciale, ma tuttora colpevolmente ignorato dalla distribuzione italiana. Si tratta dell’esordio nel lungometraggio dell’animatore australiano Adam Elliot, autore fin dalla metà degli anni ’90 di una serie di corti umoristici girati con la tecnica del passo-uno, che raccontano il buffo e scomodo universo di personaggi affetti da handicap o malattie mentali. Mary & Max prosegue lungo il medesimo solco tematico, raccontandoci l’amicizia epistolare, nata per caso e proseguita per vent’anni, tra un’occhialuta bimba australiana e un misantropo newyorkese affetto dalla Sindrome di Asperger, forma di autismo che gli impedisce di leggere emozioni e comportamenti di chi lo circonda . Lettera dopo lettera i due scoprono di condividere una sconfinata passione per il cioccolato e la stessa impaurita incapacità di inserirsi negli schemi di ciò che è definita una vita normale. Elliott ha il dono raro di saper irrorare un impianto contenutistico drammatico con abbondanti dosi di una verve comica di innegabile efficacia, filtrando con leggerezza e misura il lato amabile e bislacco da una realtà puntellata da elementi sgradevoli e patetici. Sfruttando l’espediente della corrispondenza, il racconto si sviluppa per accumulo di sfumature sui personaggi piuttosto che per pura azione, lasciando alle voci over di narratori d’eccezione (Philip S. Hoffman, Toni Collette, Eric Bana) il compito di commentare il susseguirsi di quadretti sospesi e surreali con cui Max e Mary si raccontano l’un l’altra. Attraverso l’umorismo deadpan e il gusto per le atmosfere compassate, Elliot sembra essere già in grado di imporre una via personale nell’universo del passo-uno, perfettamente autonoma rispetto al dinamismo slapstick delle creature di Nick Park o alle malinconie gotiche arabescate da Henry Selick.

La fascinazione nostalgica per il decor vintage e l’affetto per outsiders ingenui ed infantili, potrebbero inoltre suggerire di iscrivere Mary & Max tra le fila di una certa corrente imperniata attorno alla famiglia disfunzionale, un cinema modaiolo e glassato di apparenza indie e che ha in Wes Anderson il suo capostipite nobile e travisato. Va comunque riconosciuto a Elliot il coraggio di sfuggire alla scorciatoia schematica e consolatoria della rivalsa sulla società snob, che caratterizza invece prodotti come Napoleon Dynamite o Little Miss Sunshine. L’universo descritto da Elliott è invece imbevuto della medesima scombinata e irrimediabile imperfezione dei suoi patologici inquilini, intimoriti dall’illogico caos che li circonda. Neppure la scala cromatica ci riserva consolazione: non c’è nulla di invitante nel beige abbrustolito dell’Australia di Mary né nel grigio plumbeo della lunare New York di Max. Ma è dalla sensibilità descrittiva dell’animazione che scaturisce la calorosa comicità di questi pupazzetti goffi e rassegnati, che si confessano l’un l’altro bizzarre idee sul funzionamento del mondo e gli aneddoti dell’ennesima, amabile, sconfitta.

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Alfonso Mastrantonio, prodotto dell'annata '85, scrive di cinema sul web dai tempi dei modem 56k. Nella vita si è messo in testa di fare cose che gli piacciano, quindi si è laureato in Linguaggi dei Media, specializzato in Cinema e crede ancora di poterci tirare fuori un lavoro. Vive a Milano, si occupa di nuovi media e, finchè lo fanno entrare, frequenta selezioni e giurie di festival cinematografici.
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