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Men in Black 3 di Barry Sonnenfeld (USA, 2012)

Dalla brillante sceneggiatura del primo Men in Black scritta da Ed Solomon si è passati a quella meno smagliante di Robert Gordon e Barry Fanaro del secondo capitolo. Ma, dove la saga degli agenti speciali K e J s’inceppa davvero è nel terzo film, sceneggiato in maniera pessima da Etan Cohen. La penna di Cohen sembra colta da logorroicismo acuto per tutta la durata della pellicola, tranne nel finale dove la fretta di terminare il film usurpa il posto a una spiegazione meno raffazzonata. Rispetto ai precedenti episodi datati rispettivamente 1997 e 2002, in quest’ultima puntata la scanzonata irruenza verbale che contrassegna questa moderna epopea è stata stemperata con un certo rigore, che lascia scontentati i fan della serie. Se il ramo dell’ironia è stato sfoltito con una potatura indecorosa, è germogliato un nuovo innesto al suo posto. Si tratta dello spessore psicologico dei due protagonisti che dovrebbe donare nuova luce al loro rapporto di amicizia. Purtroppo, l’esplorazione nel mondo dei sentimenti si limita a un livello troppo superficiale perché smussi gli aspetti unidimensionali di entrambi i personaggi.

Salta poi immediatamente agli occhi dello spettatore il fatto che la storia alla base di Men in Black 3 non sia altro che una (goffa) variazione di Ritorno al futuro. Del resto, è garantito che non brilli di originalità la vicenda di J costretto a tornare nel 1969 per salvare la vita del collega, prima che questo ultimo venga ammazzato dall’alieno boglodita Boris l’Animale. I punti di connessione tra il nuovo film di Sonnenfeld e il cult di Robert Zemeckis risultano evidentissimi, sebbene in Men in Black 3 siano gli anni ’60 a essere rimaneggiati e rovesciati come un guanto. Però, anche in questo caso, la sensazione è che il regista e lo sceneggiatore non abbiano spremuto fino in fondo tutte le potenzialità scaturite da un viaggio nel tempo nella New York di quarantacinque anni fa. Interessante la sequenza in cui Sonnenfeld rievoca la decade degli anni’60 attraverso l’ambientazione della Factory Warholiana. Tuttavia, per la solita necessità di affrontare scene d’azione che tengano viva l’attenzione dello spettatore, l’episodio viene liquidato in pochi minuti.

Il tentativo di riportare per la terza volta sul grande schermo il fumetto di Lowell Cunningham non può e non deve pretendere di essere coronato da un successo di critica e di pubblico. Infatti, l’opera di Sonnenfeld si dimostra carente sia dal punto di vista della sofisticazione visiva sia per quanto riguarda il senso del ritmo. La giostra di effetti speciali tanto decantata non ha subito alcun incremento degno di qualche rilevanza con l’introduzione del cinema tridimensionale. La vera forza di questo lungometraggio è casomai nella gigioneria di Will Smith e nella sorprendente interpretazione di Josh Brolin, che veste i panni di un ventinovenne agente K. Candidato all’Oscar per la sua interpretazione in Milk, Brolin riesce a destreggiarsi alla perfezione tra tutti gli atteggiamenti e i tic attraverso i quali Tommy Lee Jones è riuscito a caratterizzare il proprio personaggio. Muovendosi in un sentiero già tracciato, l’attore di W. si guarda bene dall’impoverire il ruolo di K prendendo la strada della caricatura. Del tutto secondario appare l’intervento di Emma Thompson (agente O), che sostituisce lo Zed di Rip Torn alla guida del MIB.

 

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