Michelangelo Frammartino è stato indubbiamente uno dei più originali e autori emergenti nel cinema italiano del decennio appena concluso. Con i due lungometraggi finora realizzati, Il Dono (2003) e Le Quattro Volte (2009) si è ritagliato una posizione di autore eccentrico, capace di incanalare su di sé l’attenzione sia del mondo della video arte, sia del cinema documentario che di quello di narrazione. In particolare la sua opera seconda, che racconta il viaggio dell’anima di un pastore attraverso i quattro regni biologici, ha fatto parlare di sé durante Quinzaine de Realisateurs di Cannes, arrivando ad ottenere una distribuzione inaspettata in 50 paesi del mondo. In occasione dell’omaggio tributatogli dal Filmmaker Festival di Milano, abbiamo potuto conversare in esclusiva con lui.
Foto di Michele Salvioni
Il tuo cinema fa emergere con forza il corto circuito che è alla base del cinema stesso: le cose sembrano accadere quasi per caso di fronte alla camera, ma allo stesso tempo c’è un lavoro di preparazione e sceneggiatura notevole..
Anche solo poggiare la camera è in effetti un atto violentissimo, produce uno sguardo assoluto che blocca il punto di vista e lo rende istituzione. Questo conflitto tra le tue scelte, semplici o elaborate che siano, e il reale che hai di fronte c’è sempre ed in effetti mi affascina. La mia intenzione era quella di non illudermi della possibilità di dominare il reale, ma rendere questo conflitto vivo, facendomi in un certo senso degli scherzi da solo: lavorare con elementi che non posso controllare, rendere il reale sempre più ostico, mettermi a volte in una palese condizione di inferiorità. Per Le Quattro Volte, per esempio, la troupe era spesso davvero in numero insufficiente per affrontare determinate scene, tanto che il reale finiva per prendere il sopravvento: è una condizione che sono andato a cercarmi e alcune delle migliori riprese, specie nell’episodio della capra, sono frutto di questa vitalità incontrollabile. Questo, in un certo senso mi è di conforto. Il nostro sguardo, quello cinematografico ma anche più in generale quello occidentale, fa parte di una tradizione imperialista, direi quasi guerrafondaia: un’invasione del reale in cui l’occhio si impadronisce di ciò che vede. Quindi decostruire, indebolire questo sguardo, metterlo in crisi cominciando a filmare delle cose che non stanno alle regole, è sicuramente un aspetto che mi interessa nel mio lavoro di filmmaker.
Nei tuoi film è molto presente il concetto di meccanismo, di reazione a catena, sia a livello di brevi episodi che a livello di macro-struttura delle tue narrazioni. Da cosa nasce questo interesse?
Da una parte, fin da bambino ricordo di aver avuto un forte interesse per il concetto di automa. Ho sempre cercato di costruire coi lego delle cose che andassero da sole, credo sia la dimostrazione di una voglia innata di dar vita alle cose. Nelle mie estati calabresi, quando dalla pianura di Milano mi stabilivo nel paesino di mio padre con la mia famiglia, rimanevo affascinato da come la pendenza, la forza di gravità, animasse in qualche modo gli oggetti: la scena del pallone ne Il Dono è nata proprio da questa mia idea. Da un punto di vista cinematografico, sono rimasto molto colpito in passato dalla forza ipnotica dei corti di Fischli e Weiss. Già nei miei primi lavori, come la video-installazione La Casa Delle Belle Addormentate, ho provato a realizzare degli oggetti viventi, che entrino in relazione con lo spettatore come se fossero delle persone. Ritengo che un film si dimostri vivo quando invecchia, quando ogni volta che lo rivedi è qualcosa di diverso. È una cosa che si realizza innanzitutto quando le parti mancanti di un film vengono riempite da una produzione di senso praticata dallo spettatore. In secondo luogo, per quanto mi riguarda, questo accade anche quando all’interno del film si creano degli automatismi, che innescano questo strano loop ipnotico capace di far scaturire un’energia alle immagini.
Spesso dei tuoi film si è detto che l’elemento umano viene relegato sullo sfondo, ma anche alla luce di quello che mi hai appena detto, mi pare che avvenga più che altro un’emersione di cose e animali allo stesso livello dell’umano…
L’uomo resta sempre lì, siamo d’accordo. Però è vero che è una certa idea di uomo ad essere abbandonata sullo sfondo: l’idea di umano come centro assoluto a cui ogni significato va riferito. Il concetto chiave sarebbe quello di “nuova alleanza” tra l’uomo e le cose. Questo per rimediare ad uno scollamento che mi pare che sia avvertibile un po’ da tutti: le cose e gli animali non ci riguardano più, non ci sentiamo più connessi ad essi. Ancora una volta, Deleuze afferma che il cinema è un dispositivo che filma il legame tra l’uomo e le cose, quindi attraverso questo dispositivo mi piace pensare di poter riattivare quella connessione. In questo senso il cinema ha una funzione quasi medica, di sutura. In Le Quattro Volte, che è una sorta di documentario animista su una reincarnazione, questo aspetto, pur semplificato, mi pare emerga in maniera lampante.
In passato hai lavorato sia col video che in 16mm, ma per Le Quattro Volte hai voluto girare in 35mm. Da cosa nasce questa scelta e cosa ha comportato dal punto di vista pratico?
Per quanto riguarda la scelta estetica, l’intenzione era quella di mantenere in qualche modo il film vivo e portare in sala la materia. Aldilà delle qualità visive e della profondità di campo che la pellicola garantisce, volevo che il film conservasse un forte rapporto analogico con i soggetti filmati, perché si conservasse una relazione quasi tattile tra questi e lo spettatore. Per questo motivo ho chiesto e ottenuto che il film non fosse finalizzato con un riversamento digitale ma attraverso la stampa ottica. Lo studio di lavorazione a cui è stato affidato il master ha dovuto addirittura richiamare dei tecnici in pensione, perché è ovviamente un procedimento che viene richiesto sempre più di rado, ma per me era davvero molto importante. Non sono un apocalittico nei confronti del digitale, avendo studiato architettura dico sempre che ogni materiale di costruzione ha le sue caratteristiche e i suoi utilizzi, l’importante è che i materiali si conservino e che non cadano in disuso, perché esista sempre la possibilità di scegliere ciò che più si adatta al proprio film. Si tratta di una scelta costosa e scomoda, soprattutto per i 35mm che necessitano di una macchina da presa molto pesante, ma che proprio per questo attira su di sé una cura e un affetto sul set che il digitale non riceve e che era importante per me garantirmi in questo lavoro.
Ci puoi parlare dei tuoi riferimenti? In particolare qual è il tuo rapporto con il lavoro di De Seta?
Vittorio De Seta è uno dei grandissimi maestri che abbiamo in Italia, autore di film davvero emozionanti, a partire da I Dimenticati, girato ad Alessandria del Carretto, dove è ambientato il segmento de Le Quattro Volte incentrato sulla processione dell’albero. Il suo lavoro, oltre che come ispirazione mi è stato utile anche dal punto di vista pratico, perché ho scoperto che per la comunità del luogo le riprese del suo film sono state un vero e proprio momento fondativo, di riconoscimento della propria identità. Così quando siamo andati ad invadere quelle zone con la macchina-cinema siamo stati accolti con uno spirito aperto ed amichevole. Per quanto riguarda gli altri riferimenti artistici, come spettatore ho amato molte cose che mi hanno influenzato, da Rossellini a Vertov a Dreyer, fino a sperimentatori più recenti come Bela Tarr, Micheal Snow o Bruno Dumont. Da un punto di vista formativo, però, non avrei mai potuto prescindere dall’educazione visiva che si impartiva nella Milano degli anni ’80 e ‘90 allo Studio Azzurro, gestito da Paolo Rosa e dai suoi collaboratori.
Quanta confidenza devi aver con un luogo per usarlo come set? Da cineasta etichettato come “rurale” hai mai pensato di fare un film cittadino?
Fino adesso questo aspetto per me è stato molto importante. Mi sento calabrese, anche se sono nato e cresciuto a Milano, e i luoghi in cui ho girato i miei due lungometraggi mi caratterizzano, li sento fortemente miei. Le storie che ho raccontato erano in pratica già inscritte nella loro architettura e cercavano solo un mediatore che le trasmettesse. Trovo sia comunque bello che il cinema più curioso e interessante di questi anni in Italia sia geneticamente molto legato ai luoghi: penso ai lavori di Alina Marazzi, di Giovanni Maderna o Pietro Marcello, come se fosse una risposta a tanta brutta fiction. Detto questo, non lo vedo come una religione: non escludo un film cittadino in futuro, ma più precisamente al momento sto pensando ad un film il cui paesaggio visivo sia il corpo umano. Non so se il set sarà il corpo di un attore o una scenografia, ma comunque penso che già dal mio prossimo lavoro l’aspetto rurale non sarà più così presente.