Miele, il debutto dietro la macchina da presa di Valeria Golino esce nelle sale Italiane a tre giorni dalla raccolta firme legata alla proposta di legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia promossa dall’Associazione Radicale Luca Coscioni; il quattro maggio nelle piazze di tutta Italia si cercerà di portare a casa 50.000 firme da presentare in Parlamento, per spingere alla discussione che dovrebbe consentire la regolamentazione dell’eutanasia e del testamento biologico.
Miele non è ovviamente legato direttamente a questa iniziativa, ma rappresenta, per una volta, una feconda sovrimpressione, o se si preferisce, una vitale a-simmetria dello sguardo con un’urgenza molto importante per la libertà di scelta nel nostro paese, co-incidenza che potrebbe consentirci di uscire da quell’isolazionismo critico che spinge troppo spesso la stampa di settore ad occuparsi di cinema con modalità non dissimili da un collezionista di farfalle, fermamente convinto che un’entomologia portatile sia sufficiente per catturare l’irriducibilità del reale.
Al contrario, è lo slittamento di senso la forza sotterranea e politica di Miele; in questa ossessiva prossimità anche fisica alla soggettiva di Irene/Miele, lo sguardo, che sembra intrappolare i corpi nella prospettiva geometrica degli ostacoli architettonici, si libera attraverso la deriva, quella delle continue escursioni subacquee di Irene, dei suoi viaggi per reperire le dosi necessarie di Lamputal, delle corse in bicicletta con la musica che la separa dal rumore bianco urbano, di un foglio di carta preda delle correnti ascensionali.
Valeria Golino trasforma radicalmente l’immagine più consueta di Jasmine Trinca, disegnando con colori scuri ed essenziali i tratti di una figura liminale che con una spinta centrifuga si confonde e allo stesso tempo si dibatte tra i volumi di cemento e metallo della città. Miele è il suo nome di copertura, utile per assistere clandestinamente i malati terminali nel percorso del suicidio assistito, una prassi rigorosa che include il reperimento e la somministrazione di un barbiturico per cani, la scelta di una colonna sonora, una serie di regole che i familiari del malato devono seguire con attenzione. Valeria Golino filma le stanze dei malati con quella stessa distanza emotiva che Miele è tenuta a praticare durante l’esercizio delle sue funzioni, controllando una materia difficile che restituisce una complessa immagine di confine, quella che cerca nell’equilibrio tra distanza e partecipazione il bianco accecante della possibilità.
Eppure Miele, nella missione che la spinge a sostenere strenuamente la libertà di scelta, ha un codice etico che le permette di funzionare come un meccanismo ad orologeria, un sistema di relazioni apparentemente inattaccabile, regolato da una procedura che la Golino filma con precisa attenzione al dettaglio e allo stesso tempo con un’invisibile tensione claustrofobica affidata alle azioni, anche minime, dei personaggi.
Roberto De Francesco con il volto coperto da ecchimosi mentre fa una prova in assenza di ossigeno con un sacchetto di plastica in testa, i gesti risoluti di Elena Callegari nel bere la soluzione di Lamputal e il suo volto pieno di dubbi, la comunicazione impossibile tra Miele e il giovane inchiodato al suo letto, interpretato da Gianluca Di Gennaro, dove affiora la prima difficoltà emotiva di Irene. A questa inesorabilità quasi iperbarica, la Golino frappone la vita autonoma del gesto, una scelta difficile e del tutto in controtendenza rispetto ad un cinema Italiano abituato o all’annientamento dell’immagine con l’ipertrofia verbale oppure al grottesco come sistema simbolico che precede la libertà dello sguardo.
La lacerazione di questo diaframma avviene allora attraverso due vie, una più sottile, visionaria, legata alle continue Flâneurie di Irene, tra cui una splendida filmata in Piazza Santo Spirito a Firenze, dove al di là del contesto narrativo che le giustifica, precedono quasi sempre il significato, diventando vere e proprie effrazioni al dispositivo, frammenti di un cinema libero. L’altra rottura è ovviamente l’incontro di Miele con l’ingegner Grimaldi, interpretato da uno straordinario Carlo Cecchi, l’uomo manifesta un desiderio assolutamente laico per il suicidio, il controllo del proprio destino senza il calvario della malattia, nessuna giustificazione se non quella del libero arbitrio. Irene avverte allora uno scollamento da Miele, perchè se la sofferenza dei malati offre un senso alla sua lotta di libertà, l’ostinazione di Grimaldi spezza la geometria di un processo che le consente di entrare in contatto con qualcosa che non aveva previsto.
Nell’intervista che Francesca Marciano, sceneggiatrice del film insieme a Valia Santella, ha rilasciato ad Agenzia Radicale, si citano a questo proposito i nomi di Lucio Magri, Pietro D’Amico, Mario Monicelli in relazione ad un dolore psichico insopportabile, tanto quanto quello indotto dalla malattia, ma quello che è interessante nel film della Golino, al di là dei possibili riferimenti, è il modo in cui la percezione di Irene e la visione di Grimaldi interagiscono attraverso lo spazio e i gesti, basta pensare a quel cambio continuo di orizzonte che li coglie, prima durante una telefonata a distanza ravvicinata mentre Irene dalla strada dialoga a vista con l’ingegnere intrappolato nel condominio antistante, subito dopo in quell’apparente apertura verso il mare osservato dal terrazzo della ragazza, un’apertura che è anche perdersi, non sapersi più orientare in uno spazio che non è il proprio, preludio di una morte imminente.
C’è in questa prima notevole prova registica di Valeria Golino una continua mutazione della soggettiva che non approda ad alcuna prospettiva escatologica, con quella forza polisemica degli oggetti e del gesto che ricordano in piccolo la libertà quasi surrealista di Kieslowski; apparentemente schiacciato dalle leggi del caso, il suo cinema si liberava al contrario in una prospettiva caotica dell’immagine, penso alla cera che cola sul volto dell’icona Mariana nel primo episodio del Decalogo, non così distante da quel foglio di carta che Miele pone al centro del mausoleo turco di Suleiman Kamuni; Kieslowski, intervistato sul significato di quell’immagine, allontanava la tentazione che potesse assumere il peso di un simbolo rispondendo semplicemente: “è solo cera”.