domenica, Dicembre 22, 2024

Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismaki (Finlandia – Francia, 2011)

Come trovare il modo giusto per parlare di qualcosa senza cadere nella retorica edificante, nella melassa insopportabile di tanto cinema “politicamente impegnato”, nel déja vu?
Come miscelare garbo e ironia, realismo e invenzione fantastica, humor e partecipazione umana ai problemi del mondo?
Bisogna chiederlo a Kaurismaki, al tono asciutto della sua messa in scena, al minimalismo di un’ambientazione di frontiera, Le Havre, periferia portuale dove s’incontrano storie individuali e collettive, il destino di uomini qualsiasi e quello di un mondo tornato al nomadismo dopo millenni, ma senza più terre ospitali su cui fondare colonie e innalzare templi agli dei protettori.
Oggi si arriva in container e si riparte nascosti nella cambusa di una nave, la necessità impone la fuga dalla fame ma le leggi delle terre “non promesse” impongono la fuga dalla prigione o dal foglio di via, in un girotondo senza soluzione di continuità che indigna, pur lasciando senza risposte: “La sorte riservata agli extracomunitari che tentano di entrare in Unione Europea è varia e spesso indegna. Non ho risposte a questo problema, ma mi è sembrato importante affrontare questo soggetto in un film che, con tutta evidenza, è irrealista” dice il regista, indicando la chiave di lettura del film, irrealismo o realismo fantastico, lo stesso che ispirò a Chagall i suoi contadini volanti e i treni rovesciati, i violinisti sui tetti e i surreali panorami di Parigi. “Un vaso in piedi non esiste, bisogna che cada per dimostrare che é stabile“, diceva il pittore, dunque bisogna che quella che consideriamo normalità venga compromessa dal disordine e dal rovesciamento della legge di gravità, e l’arrivo del clandestino è rottura di un equilibrio che solo di fronte al suo ribaltamento si rivela precario. La paura del diverso è paura di scoprirsi inadeguati alla realtà imposta dalla nuova polis, e di fronte all’evento straordinario l’uomo reagisce ripristinando l’ordine, schiera poliziotti armati fino ai denti davanti a miserabili disperati chiusi da giorni in containers nel porto, o fa telefonate anonime per denunciare il ricercato sfuggito alle maglie della rete (è la parte di Jean-Pierre Léaud, viscido vicino di casa in una delle sue brevissime e folgoranti apparizioni).
Esistono, però, anche i cittadini di un nuovo mondo possibile, e sono i tasselli anonimi del corpo sociale, campioni senza valore come Marcel Marx (André Wilms, quel Marcel Marx che da Vita da Bohéme del ’92 ritroviamo vent’anni dopo con la stessa aria da bambino mai cresciuto), ex-scrittore senza successo che ha fatto la scelta drastica di lasciare Parigi e ora pratica con dignità il mestiere di lustrascarpe alla stazione; Arletty, sua moglie (Kati Outinen, da sempre in simbiosi con il cinema di Kaurismaki), donna mite e affettuosa, che della sua malattia non vuole che Marcel sappia bene, così prega il dottore di minimizzare e si dà il colore alle guance quando lui arriva in ospedale col mazzolino di fiori freschi; Idrissa (Blondin Miguel) un bravo ragazzino del Gabon che vuol raggiungere la madre lavoratrice in nero in una lavanderia di Londra, e ancora la panettiera, il verduraio, la cagnetta Laika, gli umili del quartiere, insomma, quelli pronti ad aiutare perché sentono che è così che si fa, e il miracolo è già questo, restare umani ad oltranza, anche quando la caccia all’uomo scatenata dalla legge nega i fondamenti del contratto sociale.
Della grande e solidale famiglia di Kaurismaki fa parte anche Little Bob, vecchia gloria rockabilly locale, folta massa di capelli bianchi in testa ma look rocchettaro quanto basta (è Roberto Piazza che interpreta sé stesso) e il suo concerto-rentrée servirà a finanziare il passaggio a Londra di Idrissa, nulla più ferma Marcel nel suo proposito di farcela, col taxi fin sotto le falesie di Dunkerque a cercare il nonno del piccolo fra i clandestini sfuggiti alle retate, al centro di raccolta alle prese con il commissario burbero che lui inchioda col suo dialogare stralunato, faccia a faccia con l’ispettore Monet, un Darroussin in perfetto stile noir dei tempi d’oro, ma con un cuore grande così.
A questo mondo in bilico tra reale e irreale, dove si sorride poco ma si è leggeri dentro, fa da cornice una Francia vintage, quella degli anni cinquanta, già vista in Vita da Bohème, perché, scherza Kaurismaki, “per fortuna c’è sempre uno ieri, l’architettura moderna mi fa male agli occhi.”
Le Havre é cinema politico nel senso più vero del termine, quello per cui umanesimo e filantropia finiscono di essere le parole desuete di un vocabolario superato, e un mondo d’altri tempi, proiettato in un tempo in cui la fraternité tra gli abitanti di un quartiere di pescatori a Le Havre salva un bambino, si trasforma in una ipotesi possibile, o una speranza venata di malinconia.
Tornano alla mente le parole che De Seta diceva parlando del suo Lettere dal Sahara: “…è difficile elaborare il presente. Anche quello di Muccino è presente, ma non so quanto sia rappresentativo. La verità è che il cinema è molto consolatorio e razionalizzante: giustifica. La gente vuole essere confortata, consolata, favoleggiata. Anche se non è troppo crudo questo mio film vuole dare un quadro; lo si può vedere fra trent’anni e dire: ecco più o meno era così l’immigrazione.” E poi aggiungeva: “Il cinema è la sintesi di quattro arti, potrebbe cambiare il mondo”.

Infatti potrebbe far miracoli, dice Kaurismaki.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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