Si fa presto a dire Fantascienza classica, il primo lungometraggio di Duncan Jones mostra una superficie di citazioni (in)visibili che casomai si riferiscono alla stagione del crepuscolo. Science fiction filosofica che, anche per scelte, impostazione e budget, si avvicina ai metatesti più “marginali” e critici del genere, due per tutti Dark Star di John Carpenter e Silent Running di Douglas Trumbull; doppie immagini nello spazio recuperate dalla cultura televisiva britannica dei primi anni ’70, capace di sfruttare la dotazione “da camera” dei Chroma Key come un dispositivo ellittico, minimale e visionario del linguaggio.
Una vitalità inventiva che nelle produzioni ITC probabilmente presenta il solo limite di un dècor tecnologico fin troppo segnato dal tempo tanto da farsi risucchiare (soprattutto nell’esaltazione acritica dei fan) nel vortice stolido del modernariato vintage. Eppure dietro quella coltre di polvere germinavano idee portentose, come se tutta l’eredità stimolante e ingombrante dell’odissea Kubrickiana e lo specchio minaccioso del viaggio interiore Tarkovskyano venissero concentrati in una versione cameristica e intima, un viaggio dentro la complessità dei processi identitari.
Un piccolo film per tutti, che precede quella stagione è per l’appunto una produzione di Gerry e Sylvia Anderson diretta fuori dalla madre patria da Robert Parrish e intitolata Journey To the far side of the sun; tutto il limite marionettistico di quel film, ancorato ad una percezione illusionistica del set, viene spazzato via nel film di Duncan Jones in una potentissima trasformazione del “visivo” in segno.
Il set in fondo è il corpo stesso di Sam Rockwell, immagine fisica e al contrario, prismatica, corpo imprigionato in una ricomposizione inquietante della memoria; la presenza traumatica delle ecchimosi che si complica a contatto con una riallocazione incessante del tempo, dove il confine tra visibile e invisibile viene elaborato da un trucco della mente, dal modo in cui i ricordi vengono, anche intimamente, manipolati .
Quello che davvero sorprende in Moon è la trasformazione della ricchezza visiva, una materia difficile elaborata secondo un principio di realismo astratto, un processo di riduzione degli elementi che utilizza i riferimenti più espliciti come segni della scrittura, oggetti che cambiano di senso.
Basta pensare all’interfaccia di comunicazione utilizzata da Gerty, il robot con la voce di Kevin Spacey che si serve di una serie di emoticons per trasmettere sensazioni affettive: simboli di un pacifismo tecnologico politically correct che Duncan traduce in una versione terribile e inquietante.
Il doppio, triplo, quadruplo corpo dell’astronauta Sam Bell imprigionato nella serialità di un racconto già scritto è un veicolo che permette il processo di un’esperienza cognitiva come lento scivolamento della percezione; la serie si apre quando lo slittamento di senso si attiva come una possibilità “altra” e combinatoria della visione. Davvero un film fuori dall’ordinario vedere.