“Molte cose possono capitare nel bel mezzo del nulla”, recitava l’incipit di “Fargo” (1996) e, da quando l’integerrima detective Margae (Frances McDormand) è emersa dalle lande innevate del Minnesota, i fratelli Coen, in precedenza firmatari di noir hammettiani come “Blood Simple” e di raffinati artifici alla “Barton Fink”, hanno ormai acquisito un posto di rilievo nel panorama hollywoodiano, passando per il Drugo nichilista de “Il grande Lebowski”, l’improbabile caschetto di un assassino seriale (“Non è un paese per vecchi”) o il cipiglio sornione di un cowboy al tramonto (“Il Grinta”). A Joel ed Ethan Coen, il “regista a due teste”, è dedicato il settimo volume di “Moviement”, collana di cultura cinematografica curata da Gemma Lanzo e da Costanzo Antermite che, da Tarantino a Svankmajer, continuano a esplorare con passione gli universi paralleli e distinti del cinema contemporaneo, avvalendosi della collaborazione di numerosi critici e mettendo a disposizione dei lettori italiani una serie di documenti preziosi. A suon di battute pungenti (una miniera solo nell’epopea losangelina di Lebowski, dove tutto, o quasi, comincia da un tappeto rovinato, come ci ricorda David Del Valle nel suo brillante inserto), raffinate allegorie e memorabilia cinefile, i Coen hanno plasmato uno stile inconfondibile che, nella miscela di commedia, noir, thriller e (perfino) western, si muove all’insegna della “decostruzione narrativa”, pescando a piene mani dai generi classici e da ben precisi riferimenti letterari (da James M. Cain a Corman McCarthy). Nei film dei Coen gli elementi sfusi si ricombinano all’insegna di un cinema in cui il caos irrompe improvvisamente nella forma e in cui il surreale fa il suo ingresso dalla porta principale, come nel racconto yiddish che apre, apparentemente senza alcun collegamento con la trama, “A serious man”. In “Non è un paese per vecchi”, l’assurdo ha il volto perfino buffo di Anton Chigurt (Javier Bardem), psicopatico con fucile a pompa, cui è dedicato il saggio di Douglas McFarland (“Non è un paese per vecchi e la filosofia morale”), che analizza le decisioni dei quatto personaggi principali in rapporto alla filosofia kantiana, conducendoci in un affascinante viaggio alla scoperta della morale nascosta nel cinema dei Coen. All’altro western atipico dei fratelli, “Il Grinta”, non remake ma riedizione del romanzo di Charles Portis, è intitolato lo studio di Elena Dagrada e di Gabriele Gimmelli, impegnati in una disamina critica che insegue le peregrinazioni dei protagonisti del quindicesimo lungometraggio dei Coen, mettendo in luce l’intelaiatura nascosta (rapporto ambivalente tra soggettività oggettività, fiaba di formazione, rimandi cinematografici, riflessione sulla morte e sulla durezza dell’esistenza) di quella che troppo frettolosamente viene talvolta considerata un’opera minore. Se Alessandro Baratti si dedica al genere forse più amato dai fratelli, il noir e le sue divagazioni, spesso in chiave black-comedy farsesca (“Fargo”, “Ladykillers”), ai Coen commediografi brillanti e sarcastici, sovversivi e raffinati, è rivolto invece il saggio di Gemma Lanzo, che guarda alla screwball e alla sophisticated comedy degli anni ’30 e ’40 e ne osserva i riflessi rovesciati in pellicole quali “Prima ti sposo, poi ti rovino”, “Mister Hula Hop” o, soprattutto “Fratello dove sei?” (dove, fin dal titolo, si sente il rimando a una celebre commedia dolceamara di Preston Sturges. Ne “I dimenticati” infatti il protagonista, regista milionario con velleità proletaria, sognava appunto di girare il drammatico “Fratello dove sei?”), alludendo al ribaltamento del sogno americano. Paul Coughlin, in un saggio per “Senses of Cinema”, riproposto da “Moviement” in traduzione italiana, torna alle origini, a quella terra di mezzo in cui i Coen non erano considerati “né artisti seri né registi commerciali”. Il critico va quindi alla scoperta dei primi film e della vocazione cinematografica dei fratelli, a loro volta persi fra le nevi del Minnesota, ma acuti osservatori dei colori locali (le pianure di “Fargo” o il “Texas di Blood Simple”) o sagaci costruttori di mondi artificiali (“Barton Fink-è successo a Hollywood”), fra realismo visivo, finzione e reinvenzione del passato. Completano il volume le succose interviste di Alex Simon (tratta da “Venice Magazine”), in cui i Coen fanno il punto sulla loro carriera fino a “Il grande Lebowski”, annunciando una pellicola “liberamente ispirata all’Odissea” (il futuro “Fratello dove sei?”), e di Cole Haddon (2010), interamente dedicata a “Il Grinta”. Nel finale, ultima chicca, le battute più celebri dei quindici lungometraggi firmati da Joel ed Ethan.