La prima metà degli anni 90 fu un periodo di trasformazione per la Turchia, durante il quale il dialogo intrapreso con l’occidente si contrappose a una politica interna ferocemente repressiva. L’efferatezza del governo e dell’esercito turchi, mascherata dietro l’apologia della lotta al terrorismo, determinò un clima di terrore che si espresse al massimo grado con il rapimento e la sparizione dei dissidenti politici. Il fenomeno delle ’madri del sabato’ fu una conseguenza di questi crimini indiscriminati: ogni sabato le mogli e le madri degli scomparsi si riunivano per protestare contro la polizia per le vie dei quartieri dabbene di Istanbul, sempre ignorate eppure indomite.
Da queste testimonianze prende spunto l’esordiente Ali Aydın per la realizzazione di Muffa (Küf), in uscita nelle sale italiane il prossimo 30 aprile per Sacher Distribuzione dopo essere stato insignito a Venezia del premio Opera Prima Luigi de Laurentiis. Il lavoro di Aydın è stato innanzitutto di scrittura: la sceneggiatura del film è un’indagine a ritroso nell’identità del paese, un’analisi che si avviluppa nei ricordi delle testimoni, le ‘madri del sabato’, come se una singola storia possa in qualche modo raccontarne altre cento. Muffa è però un film anomalo per intenzioni, che rifugge i cliché rappresentativi e disattende le aspettative dei benpensanti: Aydın non mette in scena il dolore straziante delle madri ed anzi pone una singolare distanza rispetto allo spettatore.
Ecco dunque che il protagonista del film diviene Basri, l’anziano padre di un ragazzo scomparso 18 anni prima ad Istanbul. Rimasto solo dopo la morte della moglie, Basri lavora come guardiano delle ferrovie e incede ogni giorno lungo i binari in uno stato di completo abbandono. Unico contatto con il mondo sono le lettere di protesta che tutti i mesi consegna alla polizia per avere notizie di suo figlio; per questo motivo Basri è considerato un soggetto pericoloso e attira l’attenzione di Murat, il nuovo commissario della zona.
La storia descritta da Aydın non ha ritmo né ambientazione e si sviluppa nei contrasti tra altipiani sterminati e stanze in penombra, silenzi e interrogatori. Il regista manipola la logica del filmmaking e ne inserisce gli stilemi nell’intrigo delle scelte di regia: il découpage dell’immagine è quasi sovraccaricato dall’uso narrativo dei fuochi, lo studio dei primi piani e la ricerca di toni rarefatti. Anche il montaggio non risponde a dinamiche classiche, ma sfrutta l’alternanza tra long take e bruschi stacchi sia nei dialoghi che nei cambi di scena. Il risultato è un’opera sorprendentemente matura che permette allo spettatore di vagare tra le memorie del sottosuolo, in quei luoghi della mente del protagonista dove si possono percepire malessere e alienazione. Muffa è un film che possiede una certa cifra artistica (’dostojevskiana’ per ammissione stessa del regista) e a volte si perde nell’autocompiacimento. Ma nonostante tutto assolve al suo compito principale, la denuncia.