Travis (David Strathairn) in preda all’alcool e al furore causato dalla perdita punta una pistola verso sua moglie Sue Lynne implorandole di non uscire dalla porta che separa l’arena chiusa di un locale dal simulacro della città. E’ uno degli spazi sottoposti da Wong kar wai ad un regime scopico ferocemente virtuale, dove la teatralizzazione del gesto si trasforma in postura reiterata e congelata dallo sguardo vicinolontano di Norah Jones e degli avventori, rappresentazione pura che è anche co-presenza. Il contatto più forte con il migliore e il peggior cinema di Wong Kar Wai in My Blueberry Nights si manifesta in questa riduzione di ogni accumulo cosi da mostrare in modo apparentemente scandaloso e se si vuole, sconcertante, la confusione tra l’immagine come spazio e l’immagine come schermo. I Corpi entrano nell’immagine e ci entrano con quel residuo di nostalgia strappata da un mondo e da un mondocinema che non è più, nella riproposizione dell’assenza come un movimento apparente, costituito da dialoghi relitto, e da un romanticismo che è solo residuale. La distanza viene ridotta e anche narrativamente, il viaggio con ritorno di Norah Jones si inceppa, è una contrazione illogica che si trascina nello spazio di un’america ellittica dove gli eventi sono già stati e si presentano come reiterabili, i dialoghi sono già consumati e prodotti, la morte (il padre di Natalie Portman) è una simulazione reale sulla cui verità cala un dubbio di immateriale memoria marcato da una delle sequenze più belle, nude, improbabili e ridicole di tutto il cinema di Wong Kar Wai. In fondo, il cinema del regista Hong Kongese è sempre stato minacciato da un’ipertrofia della superficie che qui cade in frantumi mostrando l’essenza digitale attraverso la prospettiva mono-oculare di Darius Khondji, quasi fosse l’occhio disincarnato di una webcam, la stessa che serve a Jude Law per ricordare e che spinge i corpi dei due amanti in un segmento di spazio già osservato, nel gelo di un bacio antiromantico.