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Nel paese delle creature selvagge di Spike Jonze: la recensione

Rimasto orfano della penna di Charlie Kaufman e dei suoi labirinti fatti di cunicoli cerebrali, per il suo terzo lungometraggio Spike Jonze si fa affiancare in fase di sceneggiatura dal più lineare Dave Eggers, romanziere sulla cresta dell’onda recentemente prestato al cinema (suo, in collaborazione con la moglie Vendela Vida, anche lo script dell’ultimo film di Sam Mendes). Ed è in effetti una presenza che si fa sentire parecchio nel modo in cui questa favola inconsueta affronta i dolci spigoli del quotidiano, senza smussarli ma affrontandoli nell’accettazione giocosa delle sue inevitabili sgradevolezze, come accadeva anche tra le pagine de L’opera struggente di un formidabile genio. Ed è forse proprio in questo atteggiamento cupo e delicato allo stesso tempo che risiedono pregi e difetti di Nel paese delle creature selvagge, non un film per bambini ma da bambini, senza per questo risolversi in una bambinata.

Si imbocca così la strada dell’affettuosa comprensione della vitalità ferina di un bambino dal carattere problematico, spunto più originale tra quelli che facevano capolino nelle dieci paginette del racconto per bambini di Maurice Sendak da cui il film è tratto. Sembra chiara l’intenzione di Jonze di adagiarsi sullo sguardo vivace e un po’ perso del suo piccolo eroe Max (interpretato con sorprendente naturalezza dall’omonimo Max Records), né grazioso bambino modello né peste fatta e finita, costretto ad affrontar da moccioso gli scogli adulti della perdita e dell’abbandono. Ogni fotogramma del film va quindi letto attraverso gli occhi di chi, privo degli strumenti base della maturità, se ha un piccolo caos di sentimenti nel petto non può che esprimerlo ad urla, strepiti e ululati o attraverso una giocosa aggressività fisica da cui trapela una malcelata e preterintenzionale attrazione per la violenza.

Dopo un brusco litigio con la madre, Max scappa di casa e si rifugia su un’isola selvaggia e battuta dal mare in tempesta, sconfinata casetta sull’albero abitata da chimerici pupazzoni dai visi grossolani e dai caratteri irruenti, goffi, e senza mezze misure, proprio come solo i sentimenti di un ragazzino di 10 anni posso essere. Come Max, le creature saltano, ululano e giocano tutto il tempo, come Max diventano ingestibili e distruttivi se le cose non vanno come devono andare. Nei loro spropositati passaggi tra gioia e tristezza, nella loro spropositata forza e fragilità, nella spropositata paura che incutono e che provano, il protagonista si troverà a confrontarsi con se stesso. Ugualmente spropositata sarà la lunghezza di certe scene di battaglie e corse a perdifiato, come anche la semplicità didascalica di certi simbolismi. Ma pare chiaro come Nel paese delle creature selvagge cerchi e trovi il suo spirito significante proprio nell’inadeguata e ingenua sproporzione dell’infanzia.

Stilisticamente ci ritroviamo nella terra di mezzo di un’estetica un tempo definibile “indipendente” e oramai approdata a grandi budget e distribuzioni, testimoniata dai colori attutiti di una fotografia languida e crepuscolare e dalla predilezione per elementi dal look naif e artigianale (i costumi di peluche, i diorami di cartone o di legno intagliato) che vanno ad incrociarsi con le evoluzioni e le espressioni facciali dei mostri, ampiamente ritoccate in computer grafica. In questa attitudine Jonze sembra ribadire il fronte comune condiviso con il sodale Michel Gondry, pur facendone propria un’inclinazione più asciutta e meno sfacciatamente visionaria. Ma proprio in questo suo terzo film, Jonze fa meno segreto della sua risaputa gavetta videoclippara, resa qui evidente dal compiaciuto indugiare nella fusione tra le immagini e le digressioni musicali della colonna sonora curata da Karen O, musa indierock ed ex compagna del regista. Un peccato di equilibrio che si inscrive perfettamente nel quadro di un film volutamente imperfetto, troppo ruvido per andare incontro ad un pubblico infantile (o almeno a quello cresciuto dal cinema per bambini) e troppo schematico e ingenuo per soddisfare con convinzione palati adulti. Probabilmente pienamente adatto solo a chi, ingranando la retromarcia, possiede la capacità e la voglia di fermarsi a metà strada.

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