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Nella Casa di François Ozon: la recensione

Il ragazzo dell’ultimo banco, pièce teatrale dello spagnolo Juan  Mayorga, diventa nelle mani di Francois Ozon una sceneggiatura lieve e intrigante, densa nell’apparente trasparenza, in tensione fra schermo e platea, tra realtà e fantasia. Come dire, tutto è finzione e tutto è vero, scuola, casa, cinema, mondi del fare e dell’inventare, del pensare e dell’agire. Dov’è il confine?
Con le sue incursioni del fantastico nel reale (ricordiamo l’angelo “telecomandato” di Ricky, storia d’amore e libertà, l’evento fiabesco che si incastrava naturalmente nella realtà dei protagonisti) Ozon mette a fuoco la condizione umana ricorrendo ad un paradosso così reale da scompigliare tutte le carte, lasciando in chi assiste il dubbio su quanto sia realmente accaduto e quanto solo inventato dalla fantasia senza barriere di Claude (Ernst Umhauer), il giovanissimo protagonista.
Claude ha un fascino inquietante, infantilmente torbido, esercita un’attrazione ipnotica su chi lo circonda. A scuola sul prof. e il compagno Rapha (Bastien Ughetto), a casa del compagno sulla madre di lui (Emmanuelle Seigner), e i richiami a Teorema di Pasolini nascono spontanei. Soprattutto, Claude sa scrivere e, in tempi di semi-analfabetismo di ritorno, è la sua carta vincente.
Il prof. di letteratura del liceo, Germain (un Fabrice Luchini di superlativa bravura) lo nota leggendo le sue prove,Claude ha il talento che avrebbe voluto lui, s’innesca un processo d’identificazione abbastanza surreale.Lo sprona a continuare, nasce una specie di romanzo a puntate da uno spunto minimo, qualcosa del genere corrente a scuola, tipo “parla di te” o “le tue vacanze” o, ancora, “il tuo compagno di banco”.
Claude parla della casa borghese di Rapha, entra (realmente? con la fantasia?) dans la maison che ha studiato a fondo in lunghe sedute sulla panchina del parco di fronte alla casa: lo attira l’odore di donna borghese che emana dalla bionda madre del compagno, vuol fondersi col gruppo di famiglia in un interno creando un rapporto di dipendenza da lui di tutti i membri. Scopriremo, infine, che una madre è mancata nella sua formazione, un padre disabile e una casa modesta, quasi povera, sono il suo mondo di provenienza.

Quindi Claude ne scrive, la vita diventa parola, scrittura, forse arte.

Il ragazzo ha fantasia e talento da vendere, conduce il gioco con sottile perversione e intelligenza lucida, quasi preveggente. Germain sembra fargli scuola di scrittura, in realtà è il serpente davanti al fachiro. Kristin Scott Thomas, moglie di Germain, attenta e svagata insieme, ironica e un tantino nevrotica, legge i temi e ha qualche perplessità su quello che sta succedendo. La sua è la parte dello spettatore, indeciso se credere o non credere, ma poi va avanti con la sua vita e i suoi problemi (ha una galleria d’arte a rischio chiusura).

Alla fine, il circuito di attrazione/repulsione è totale, la storia che Claude racconta nel foglio quasi quotidiano lasciato al prof., con quel to be continued in calce, tocca l’akmè, e, come insegnano i meccanismi dello schema di Propp, si va al ristabilimento dell’equilibrio iniziale, ma, attenzione, nulla è più come prima, la tradizione millenaria del racconto fantastico, rivisitato in chiave post-moderna, è ancora una volta rispettata, i sottotesti sono vari, Ozon ha il dono (forse come Claude) di attrarre “divertendo”, l’etimo è quello, volgersi altrove, guardare il lato nascosto della luna e vedere l’effetto che fa.
Germain e la moglie scoprono sé stessi, la madre di Rapha anche, e così tutti, tranne Claude, che ha l’aria di sapere benissimo quello che fa, come l’artista, appunto.

 

 

 

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