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Non Aprite Quella Porta 3D di John Luessenhop: dal documentarismo di Tobe Hooper al merchandising di Leatherface

Il cinema americano ed il franchise sono un binomio inscindibile. La serialità, il brand, la fideizzazione, logiche di marketing dalle quali, nel  cuore propulsivo dell’universo capitalistico, non è mai sfuggita neanche la settima arte. Negli ’80 il principio della coazione a ripetere ha interessato produzioni perlopiù minori (nel caso specifico dell’horror, aldilà dello stesso Nightmare, delle vagonate di Venerdì 13 e delle centinaia di Case apocrife, i Ghoulies, Phantasm, Leprechaun e chi più ne ha…) interessate a mantenere vivo un nome, spesso anche solo un’idea, ritenuta di un certo interesse, magari mutuata da prodotti maggiori, prima ancora che esclusivamente vincente sul piano degli incassi. Niente di male, ovvio: l’arte (alta, bassa, colta, popolare o popolaresca che sia) è prodotto, è commercio, lo è sempre stata e sempre lo sarà.
Vi sono innumerevoli eccezioni ma è certo che a fianco di ogni Romero, che reinnescando il meccanismo de La Notte Dei Morti Viventi ad libitum, inspessisce il proprio racconto di concretezze ideologiche ad ogni passo più consapevoli (N.d.r. leggi la recensione del film più recente di Romero, Survival of the dead, dove si parla di forza omicida dell’orrore ideologico) , è sempre esistito un Tobe Hooper che si accontenta di rovesciare e banalizzare il proprio epocale capolavoro del 1974, Non Aprite Quella Porta, una dozzina d’anni dopo, in una Parte II stupidotta e fracassona; divertente ed anche, a modo suo, storica, con uno spaesato Dennis Hopper che è comunque sempre un bel vedere, ma ad anni luce di distanza dalle teorie del capostipite e divenuto esso stesso, col suo mood camp, lo splatter a profusione e certe derive grottesche, un po’ il vero modello delle pellicole successive (Leatherface e il neanche buono da esser nominato Non Aprite…4).
La regola della serie ad ogni costo, però, ha avuto una brusca accelerazione corrisposta alle dinamiche della finanza speculativa, laddove nulla viene sacrificato al tentativo e tutto invece al profitto pressoché sicuro. E’ così che al sequel, prequel, remake o quant’altro, in nome del freddo incasso, viene sacrificato qualunque concetto legato all’autorialità (che in America è praticamente limitato d’ufficio al Sundance style), tanto che autori e registi, divengono completamente sostituibili l’uno all’altro, senza una visione, uno sguardo, una pur minima riconoscibile estetica. Quel che è peggio, nel vuoto assoluto d’idee dell’oggi, tornando insistentemente al recupero forzato di classici ritenuti, con tutta evidenza, buoni, perché ormai sedimentati nell’immaginario collettivo, ma non abbastanza per non essere soggetti ad uno svecchiamento da blockbuster, per le nuove generazioni.
Si dirà che principi produttivi del genere, siano sempre esistiti nell’industria cinematografica ed è vero. Ma mai come oggi la media delle pellicole di genere può contare su mezzi e capitali così enormi, senza però avere più immaginari di riferimento; mondi da raccontare; storie, volti, suggestioni.

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