Fin dagli esordi di Blood Simple il cinema dei Coen ha sempre avuto, talvolta in modo persino più marcato della naturale vocazione cinefila, una forte matrice filosofico-letteraria. Non è un caso che le opere migliori dei fratelli siano proprio quelle che attingono direttamente alla tradizione letteraria americana – dalla scuola hard boiled di narratori del calibro di Dashiell Hammet, Raymond Chandler e James Cain fino ai grandi romanzieri del Sud (Flannery O’Connor, Faulkner…) – lasciandovi confluire il cinema che inevitabilmente tali riferimenti si portano dietro (con ogni possibile variante spazio-temporale/tragica/comica/kafkiana/melvilliana/filosofica: Blood Simple, Crocevia della morte, Fargo, Il Grande Lebowski, L’uomo che non c’era e, metatestualmente, Barton Fink), mentre il gioco sembra perdere di senso, rimanere in superficie quando i Coen si limitano a ricalcare forme cinematografiche senza mediazioni, riflettendole meccanicamente nelle lenti grandangolari e nelle prospettive grottesche del loro stile (la commedia “alla Frank Capra” Mister Hula Hoop, la sophisticated comedy Prima ti sposo poi ti rovino, il remake della Signora Omicidi di Mackendrick). A conferma del legame indissolubile tra il cinema dei Coen e la tradizione letteraria, non bastasse un’opera come Barton Fink, c’è una raccolta di racconti firmati da Ethan Coen, narrati con piglio immaginifico: I cancelli dell’Eden (Einaudi, 1998),.
Non è un paese per vecchi è la prima trasposizione letteraria dei fratelli Coen, dal romanzo (del 2003) di Corman McCarthy, uno dei più quotati narratori americani contemporanei. L’incontro tra i due cineasti e il romanziere è tutt’altro che casuale e non solo per il fatto che proprio da un romanzo di McCarthy il loro amico ed attore Billy Bob Thorton aveva tratto alcuni anni prima un film, peraltro dimenticabile, Passione Ribelle.
Non è un paese per vecchi è, sostanzialmente, il punto di partenza ideale per una sceneggiatura di ferro: scarno, essenziale, efficace, denso di dialoghi straordinari, spesso sul filo del paradosso, pessimista fino al nichilismo, spietato nella descrizione di un mondo in dissoluzione. E’ un romanzo a sua volta imbevuto di cinema di genere, vicino, per l’umore e la secchezza, a certe derive crepuscolari del western e dell’action (Peckinpah, Siegel), alle città amare di un Huston o di Arthur Penn. Riportando sullo schermo un romanzo che si trascina dietro un proprio background cinematografico, i Coen hanno innanzitutto il merito di evitare ogni qual tipo di ridondanza. Scarnificano ulteriormente il già scarno tessuto narrativo del romanzo, estraendone i dialoghi più significativi, eliminano quasi totalmente le libere riflessioni dello sceriffo che aprivano ogni capitolo del romanzo come un’ideale voce off, riducendone a brandelli le suggestioni (il resto è sottinteso, tra le rughe, nello sguardo di Tommy Lee Jones) e limitando la portata moralistica del messaggio (il tema della droga rimane, sullo schermo, in secondo piano). Mantengono piuttosto viva, perfettamente intatta la tensione che caratterizzava le pagine del libro (la caccia all’uomo tra i motel è una magistrale lezione di suspence, quanto di più hitchcockiano i Coen abbiano mai girato) attorno al “gioco a tre” (o a quattro) per il bottino – svuotato dei pochi psicologismi, ridotto ad un unico movente (i soldi, sporchi) – per poi esasperare, sul finale, l’utilizzo delle ellissi e dei fuori campo che già caratterizzavano il libro. Lo spazio desertico che separa il Texas dal Messico è il luogo ideale per portare ulteriormente avanti il processo di stilizzazione che dai motel hopperiani di Blood Simple, passando per le nevi del cuore selvaggio americano (il midwest di Fargo), caratterizza la linea più apertamente filosofica della loro produzione. Ma Non è un paese per vecchi, salvo un paio di caratteri più smaccatamente coeniani (la madre di Carla Jean, l’orchestrina messicana) e pochi vezzi cinefili (Flitght to Tangier, un’altra storia di inseguimenti per un ricco bottino, alla tv), va oltre la stilizzazione. I Coen approdano (finalmente) ad un cinema nudo, con un procedimento di spoliazione non troppo distante da quello operato da Van Sant con Gerry (che non a caso seguiva, come nel caso dei Coen, due pellicole più dichiaratamente commerciali): lavorano forme e figure con la luce (la fotografia di Roger Deakins è puro godimento per gli occhi) e sulla scorta del romanzo restituiscono la sensazione di una reale desertificazione degli animi attorno ai pochi residui di un’umanità e di un paese schiacciati tra il peso del ricordo di un passato che si sta allontanando ed il panico verso qualcosa che, altrettanto ineluttabilmente “sta arrivando” e “non si può fermare”. Nel presente dell’action, della scelta senza ritorno Llewelyn Moss incrocia, sulla loro strada, il Male, incarnato con straordinaria efficacia dal personaggio di Anton Chigurgh. Che i Coen e Bardem trasformano in un personaggio cinematograficamente memorabile, uno dei più crudeli della storia del cinema, un archetipo terrorizzante degno del Mitchum de La morte corre sul fiume, che nemmeno il Rio Grande può fermare. Bardem fa suoi i pochi gesti del Chigurgh di McCarthy (la cui unica preoccupazione sembra essere quella di ripulirsi dal sangue una volta scelta ed eliminata la vittima), il carattere fantasmatico e “slittante” della sua presenza, il suo porsi in sintonia con il destino lasciandosi trascinare ora dalla volontà degli altri ora dallo scorrere delle cose. Ci mette di suo un’aria trasognata, distaccata, raggelante. La sua caratterizzazione è il tratto coeniano più pregnante e interessante del film: la pettinatura “beat”, i movimenti rigidi e persino goffi da cartone animato. A terrorizzare è soprattutto la calma con la quale affronta ogni situazione, il suo incombere silenzioso, a piedi scalzi, un passo dopo l’altro, il senso di astrazione, quasi zen, che finisce per dominare l’intero film.
Spaventarsi del silenzio: la riscoperta di una diversa modalità di percezione del suono provoca un senso di smarrimento. La quasi totale assenza della musica e di contro l’utilizzo del sonoro in una complessa partitura emotiva lasciano emergere la percezione di una natura incombente (il vento che domina la prima parte) e di nuovi, meccanici impulsi (quel clic ossessivo a segnalare la presenza della preda, che accelera di velocità, come, immaginiamo, il battito cardiaco di Moss) che l’umanità non può (più) dominare.
Come il Cronenberg di History of Violence – anch’esso in rapporto con altra letteratura – Non è un paese per vecchi è un film che riesce magnificamente nell’impresa di coniugare esigenze spettacolari e coraggiose scelte espressive e narrative, sperimentazione e classicità (il finale, straordinario dei due film), oltrepassando i limiti autoimposti di certo cinema postmoderno. Si torna a respirare cinema puro e nondimeno necessario: come il film di Cronenberg, quello dei Coen è una riflessione sull’America (e sul mondo) di oggi più efficace di qualsiasi trattato sociologico.