venerdì, Novembre 22, 2024

Non Lasciarmi di Mark Romanek: lo sguardo dei sacrificati (Gb, 2010)

Esce il 25 marzo il nuovo film di Mark Romanek tratto da un romanzo di Kazuo Hishiguro; Indie-eye Straneillusioni dedica uno speciale al film con due recensioni del film e una della colonna sonora; Non lasciarmi, la recensione di Sofia Bonicalzi...

Indie-eye Straneillusioni dedica uno speciale al nuovo film di Mark Romanek in uscita il 25 marzo anche nelle sale Italiane; da questa parte è possibile leggere la recensione del film di Michele Faggi, mentre da questa parte è possibile leggere una recensione della Colonna sonora.

Ci sono film che si svelano a poco a poco, ritornando su se stessi e ricomponendo soltanto alla fine i frammenti che hanno abbandonato lungo il cammino. Sono film che parrebbe un delitto raccontare (chi vorrebbe sapere, fin dalla prima inquadratura, che Charlton Heston troverà la Statua della Libertà sul pianeta delle scimmie?), eppure, nel caso di Non lasciarmi (non è l’ennesima commediola romantica, per quanto il titolo possa trarre in inganno) conoscere in anticipo che cosa accadrà davvero ai bambini di Hailsham non preserva lo spettatore da un coinvolgimento emotivo che penetra in profondità la scorza di coscienze addormentate dal quotidiano. Siamo alla fine degli anni ’70 e Hailsham sembra uno dei tanti college per rampolli facoltosi, perduto nella campagna inglese e ligio ai sacri principi del dovere e della disciplina: eppure, come si intuisce dall’incipit e da un motivo musicale vagamente inquietante, le nostre aspettative si riveleranno ben presto mal riposte. In un luogo in cui nulla è come sembra (i giocattoli avidamente collezionati sono gli scarti di un mondo esterno sconosciuto, le insegnanti sono guardiane di un recinto da cui è impensabile fuggire), i bambini scopriranno che, delle tante storie che circolano nei corridoi di Hailsham, una soltanto è vera: gli studenti non sono altro che cloni, depositi viventi di organi che aspettano di completare il loro ciclo vitale alle soglie dell’età adulta (i primi piani di bambole e pupazzi sono assai indicativi). Paradossalmente, in un mondo dove il progresso assume i contorni sinistri di un culto sacrificale e i margini dell’etica sono diventati  indefinibili, la ribellione degli androidi di Blade Runner si trasforma nella rassegnazione silenziosa di chi non conosce la dolce e tragica imprevedibilità del futuro. Eppure, in questo orizzonte rarefatto, in cui il destino è già stato scritto, sono trasmigrati quei sentimenti di amore e pietà che, forse, hanno abbandonato il mondo degli uomini: così, come nel più tradizionale degli intrecci, la dolce Kathy si innamora del riservato Tom, che le preferisce l’aggressiva, disperata Ruth, che imita i personaggi della televisione per sentirsi vera. Dopo anni di difficile convivenza comunitaria, Kathy, delusa e ferita, sceglie di entrare nel corpo degli assistenti, coloro che assistono i compagni durante il periodo del “completamento”, in attesa di essere a loro volta convocati per le prime donazioni di organi. I tre si incroceranno nuovamente ad un passo dalla fine e tenteranno con tutte le loro forze, e il loro amore, di posticipare l’inevitabile, in un climax emozionale che si scioglierà soltanto nell’attonito finale. È forse un segno dei tempi che, mai come nell’ultimo secolo, le utopie benevole si siano distorte nel loro doppio malvagio (da Metropolis di Fritz Lang a 1984 di George Orwell), rivelando un pessimismo che investe ormai anche la sfera dell’ideale, o abbiano cercato rifugio in mondi lontani (Avatar). A differenza di quanto accade nel capolavoro di Ridley Scott, nell’Inghilterra cupa di Non lasciarmi, gli esseri umani non si mescolano, se non di sfuggita, ai loro surrogati, ma sono figure lontane e appannate (cameriere, infermiere o donne dietro la vetrina), mentre i modelli (i possibili), dai quali hanno preso forma, rimangono sconosciuti. Mark Romanek, già regista dell’inquietante e paranoico One Our Photo, adattando l’omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro riesce quasi sempre nel tentativo non facile di fondere un’intensa storia d’amore a laceranti riflessioni esistenziali. Al di là della domanda, che emerge in modo evidente, ma è in fondo la più retorica, su quali siano i limiti del progresso scientifico, l’interrogativo più pregnante è forse un altro e riguarda non soltanto un ipotetico futuro, ma il presente di una società che si proclama libera e progredita: che cos’è la dignità umana e dove si colloca la soglia sottile che non dovremmo attraversare (e si noti, per converso, la quantità di soglie e cancelli che delimitano l’universo chiuso in cui si muovono i protagonisti), se vogliamo trattare i nostri simili come fini e non come mezzi? O sono forse uomini e donne qualunque i tre protagonisti del film, alla ricerca di un’identità e di un senso che sfuggono fino alla fine, mentre un inesorabile conto alla rovescia corre verso il suo punto terminale? Come in Quel che resta del giorno, forse il più celebre adattamento cinematografico da un romanzo di Ishiguro (dove il punto di vista era quello del maggiordomo Stevens, che vive unicamente per gli altri, per i padroni, non osando tentare la sorte di un’esistenza reale), in Non lasciarmi, lo sguardo è quello, straziato, dei sacrificati e dei reclusi (“noi veniamo dalla feccia”, dice Ruth ad un certo punto), che brillano di umanità e calore, ma sbattono ali troppo fragili in un mondo irrimediabilmente indifferente.

 

Sofia Bonicalzi
Sofia Bonicalzi
Sofia Bonicalzi è nata a Milano nel 1987. Laureatasi in filosofia nel 2009 è da sempre grande appassionata di cinema e di letteratura. Dal 2010, in seguito alla partecipazione a workshop e seminari, collabora con alcune testate on line.

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