“I fanciulli sono visioni atroci/ di morti; dov’è la loro innocenza?/ dove sono le loro seduzioni?/ Hanno gli occhi pieni di cenere” (Pier Paolo Pasolini – sette Haikai – Tutte le poesie, 2 tomi, Mondadori 2003)
Dopo aver visto il debutto nel lungometraggio di Eva Ionesco si ha la sensazione che tutte le speculazioni, per lo più superficiali e becere, circolate fino ad ora su Maladolescenza, il film diretto da Pier Giuseppe Murgia nel 1977 e interpratato oltre che da Lara Wendel dalla stessa Eva all’età di 11 anni, vengano rilette allo specchio attraverso il racconto in soggettiva di una terribile stagione di violenza. Il film diretto dallo scrittore-regista anti-fascista, autore tra l’altro di un testo abbastanza noto tra chi si occupa di storia politica come “Il vento del nord – Storia e cronaca del fascismo dopo la Resistenza, 1945-1950“, scritto due anni prima di girare Maladolescenza e più di venti rispetto al lavoro svolto come autore Rai per “Chi l’ha visto?“, diventa allora testimonianza documentale di una parte della vicenda, segno collocato sullo sfondo di questo lungo e doloroso baratto mercantile ai danni del corpo di Eva, che la Ionesco racconta rimuovendo nomi, situazioni, committenti e sopratutto tenendo a distanza l’autobiografia con il diaframma di una finzione più tollerabile della realtà.
La descrizione dell’appartamento Parigino di Irina Ionesco che è possibile ricavare dalle interviste rilasciate dalla fotografa di origini rumene dai primi anni ’70 in poi, o da alcuni volumi dedicati all’arte fotografica tra cui uno del 1985 intitolato How to photograph Women, parte della serie Dixons World of Photography, sovrappone due mondi distinti; quello “reale” fatto di oggetti quotidiani e quello nascosto ubicato nella stanza più grande dell’abitazione, concepito per evocare un mondo immaginale.
Sono numerose le testimonianze che raccontano l’approccio della Ionesco alla fotografia come un’esperienza fortemente sperimentale ed ec-centrica rispetto alle attitudini professionali; lo stesso studio di posa riflette una forzatura del limite presentandosi più come un boudoir, un harem ricco di oggetti e chincaglierie di scarso valore appartenenti ad un sentore di matrice orientale più che ad una vera e propria tradizione e che si stagliano sulla dominante nera delle pareti e del soffitto. In questa vera e propria camera oscura dell’inconscio senza porte ne finestre, la Ionesco sembra interessata maggiormente alla messa in scena e alla stratificazione dei piani che alla tecnica; utilizza pochissime luci, una Nikon F con un obiettivo da 50mm ottenuta in dono nel 1964 dal pittore Corneille, e una pellicola bianco e nero 800 ASA, quasi sempre settata sui 400.
Il bianco e nero per Irina Ionesco è accesso ad una realtà metafisica, una distanza immateriale a cui tende anche nei suoi scatti a colori, più vicini ai viraggi degli anni ’20 che ad un cromatismo saturo, di tipo “tecnico”; lo si percepisce chiaramente nei setting che confondono modella e feticci, realizzati come se uno schermo (spesso un velo, una lastra di vetro, una fissità sepolcrale, la forma pulviscolare della luce) si frapponesse tra chi sta da una parte o dall’altra rispetto all’occhio della morte, la stessa distanza che in un certo senso scorgeva il surrealista Andre Pieyre De Mandiargues, autore della prefazione al volume fotografico della Ionesco intitolato Liliacees Langoureuses Aux Parfums D’arabie, quando parlava di uno spazio dove non c’è “nessuna licenza per il tatto, nessuna possibilità di toccare”, perchè quello di Irina Ionesco è un mondo che “appartiene ai sogni”.
Rispetto alla pornografia aptica di Araki (penso agli scatti di Shinjuku commisionati da Akira Suei di cui si parlava in un articolo originariamente pubblicato su cartaceo per Daemon Magazine, la rivista ideata e diretta da Franco Baldasso, e riprodotto qui su indie-eye.it) la Ionesco sta fuori dal quadro, congela la performance in un luogo di remota fissità e partecipa solo specchiandosi: “il mio universo replica se stesso ripetutamente nelle mie opere. Fa parte di un sogno, è parte dell’inconscio, ci sono moltissime donne perchè parla di me mentre cerco la donna che ho perso; mia madre“. L’accesso a questo universo palindromo è garantito dalla metamorfosi del corpo fotografato in un elemento immateriale del sogno e per Irina sarà una forma percettiva possibile solo attraverso il corpo della figlia Eva, modella prediletta a partire dai 4 anni d’età fino circa a 11 anni: “Venivo dal mondo delle arti performative e quando Eva è nata, volevo che ne facesse parte. Oggi sarebbe impensabile“.
E’ un rapporto complesso quello tra Irina e Eva Ionesco che rischia il fraintendimento, sia che lo si osservi attraverso una lente moralistica, sia che lo si affronti dal punto di vista della supremazia artistica, un territorio nient’affatto privo di contaminazioni nella carriera della fotografa Rumena se si pensa alla collocazione del corpo di Eva, fuori e all’interno del mercato. Eva nuda tra i simulacri di morte, Eva bambola di carne che tende all’inanimato, come più tardi saranno i corpi infantili fotografati da Anna Gaskell, sembra confondere, attraverso il desiderio ossessivo di rispecchiamento della madre, quella distinzione tra immaginazione e realtà, collocando il proprio corpo in una spazio perturbante che risiede tra organico e inorganico, tra il bambino e l’adulto.
In un certo senso, la fotografia di Irina Ionesco interroga direttamente l’osservatore sulla formazione del desiderio, figurandosi qualcosa di inconcepibile, che sta oltre l’identificazione di un erotismo identitariamente orientato; Julia Kristeva a questo proposito, nel suo saggio “The Adolescent Novel” parla della Lolita di Nabokov come di una seduttrice che si impone sul proprio narratore sotto forma di metafora di qualcosa che ancora non è pienamente formato, una sorta di pre-linguaggio che elimina tutte le categorie di una perversione sessualmente codificata.
In quell’immagine allo specchio, senza il coraggio di Araki, come dicevamo, nel calare se stesso all’interno della performance, anche Irina Ionesco vede tre persone (come suggerisce David Hockney nelle sessioni fotografiche che ritraggono i suoi genitori), se stessa, se stessa figlia, se stessa madre; una riflessività che va oltre la sconnessione dialettica tra soggetto/oggetto ma che cambia costantemente la posizione dell’osservatore collocandolo in una condizione sconfortevole, quella che Rosalind Krauss in “Corpus Delicti” identifica nella “disarticolazione del proprio io attraverso una doppia immagine allo specchio”.
Se intendiamo allora la pornografia come il riflesso di una logica etero o omosessuale che mette in relazione se stessi e l’altro, le Immagini di Irina Ionesco alludono forse a quella “pornografia adolescente” individuata da Kristeva come resistenza a questa forma orientata dello sguardo verso una perversione pre-formale che non ha alcuna origine di genere.
E’ una suggestione possibile che Saskia Vogel, in un saggio pubblicato in rete, recupera in parte citando le parole di James Kincaid tratte dal suo saggio intitolato “Child-Loving: The Erotic Child and Victorian Culture“, dove l’accademico Americano parla del modo in cui insistiamo ossessivamente nel parlare di innocenza, purezza e asessualità dei bambini, cosi da “aver creato un’eco rovesciata: esperienza, corruzione, erotismo“; ma supera immediatamente dopo chiedendosi, se al di là del ruolo centrale che le immagini della Ionesco hanno avuto, nella riconfigurazione dello sguardo sulla formazione del desiderio, possano essere considerate una messa in scena giustificabile rispetto alle immagini di moda create a scopo esplicitamente commerciale che vedono, per esempio, come protagonista Thylane Lena-Rose Blondeau, la bimba di 10 anni che ha posato recentemente per un set disturbante pubblicato su Vogue.
L’esposizione dei bambini per la Vogel include per forza di cose e in ogni caso l’impossibilità di esercitare una scelta consapevole dove non esiste territorio, tra arte e mercato, che sia fuori dal confine della coercizione; ed è probabilmente da qui che Eva Ionesco è ripartita nel costruire l’autobiografia finzionale di My Little Princess, viaggio in un mondo simbolico che sembra rovesciare le enunciazioni Sadiane dell’ultima Breillat, trasformando un racconto che avrebbe potuto essere ancora una volta visione sulla maternità come esperienza “abietta” attraverso il riconoscimento progressivo di un’eccedenza reciproca, nel calvario di esser figli, s/oggetti creati, non generati.
Violetta (una splendida Annamaria Vartolomei), collocata tra simboli di morte e simulacri inanimati in un setting che ricorda l’immagine mortuaria della Melissa Graps immaginata da Mario Bava, può tollerare quello spazio virtuale come un prolungamento del gioco nel sogno fino a quando uscire dal quadro non diventerà una dolorosa riappropriazione del punto di vista.
Eva Ionesco porta Violetta fuori dalla camera oscura, la sorprende a scuola in un contesto dove il ventre materno della creazione artistica non può proteggerla, evidenziando il contrasto tra realtà e postura con quella leggera crudeltà che aveva Truffaut quando filmava un’infanzia non riconciliata.
Ed è il contatto con le creature di un inconscio che non le appartiene a rendere più semplice per Violetta l’ingresso in un mondo misterioso che Eva Ionesco filma con i toni di una fiaba nera, accentuando quella collisione temporale che è del tutto assente dal limbo fotografico di Irina, ottenuta con una sovrapposizione tra le tracce storico materiali degli anni ’70 e una comunità di creature iperreali collocate ai margini della società (oscuri commitenti, perversi mercanti, luridi amanti della carne) destinate a vagare in quella stessa atemporalità che sembra emergere dalle fotografie di Irina.
Eva si è ispirata indubbiamente ad un patrimonio iconografico reperibile ma che ha potuto esaminare con l’accuratezza di un segno che è anche cicatrice interiore. Quella destrutturazione radicale di cui parla Carmelo Bene al fine di separarsi dal peso di produrre Opere, per diventare vero e proprio capolavoro vivente è una consapevolezza che Violetta acquisisce a sue spese, da una prospettiva negativa; se in un primo momento le è difficile distinguere il gioco dal ruolo, il teatro familiare da quello scolastico, è l’occhio degli altri che comincerà ad aprire ferite, in una separazione progressiva dell’immagine dal corpo.
Sono i vestiti da piccola diva degli anni ’30 con cui la madre costringe Violetta a vestirsi anche quando si reca a scuola, è l’immagine di un suo nudo venduto a Playboy sbattuto su una bacheca pubblica, è la persistenza del denaro come reiterazione visibile, nel gesto, di un baratto intollerabile, è la consapevolezza di partecipare ad un gioco (“non voglio più posare con uomini nudi”) di cui non si sono condivise le regole, e che Eva Ionesco pur tenendo abilmente fuori campo, re-intepreta rispetto ad un’iconografia conosciuta.
Ci si chiede come sia possibile guardare nuovamente e con la consueta indifferenza cultuale, le sequenze di gioco erotico filmate da Pier Giuseppe Murgia, dove possiamo immaginarci senza difficoltà la consulenza di Irina che segue la figlia, predisponendo un teatro non dissimile da quello dei suoi set fotografici, e ancora ci chiediamo se il pericolosissimo (e vile) diaframma che regola supposti livelli di maggiore o minore artisticità, renda più tollerabile un atto di violenza nel suo farsi.
In fondo, Maladolescenza, nella sua brutale trivialità, dopo la visione di My Little Princess, acquisisce un terribile valore documentale su ciò che il racconto di Eva Ionesco si limita ad accennare senza moralismo. Rispetto a quella disarticolazione dell’io di cui parlavamo citando Rosalind Krauss in relazione alle foto di Irina Ionesco, Violetta rompe lo specchio per strapparne il proprio riflesso; è una riappropriazione del proprio corpo, imprigionato fino a quel momento in una dimensione immateriale e palindroma.
Eva ionesco in questo senso non ha interesse ad esercitare un giudizio, con molta sofferenza osserva l’affetto della madre (Isabelle Huppert) come si osserva la sincerità amorale di un’ossesione o il processo di abiezione che accompagna il rapporto tra una madre e una figlia. Eva vuole esercitare solamente un diritto del proprio sguardo attraverso la creazione di un mondo finzionale, un simulacro cosi vicino e cosi lontano dalla sua vita.
Per la sua Violetta, in un meccanismo di rispecchiamenti vertiginoso, si tratta del diritto all’oblio, che Eva Ionesco filma con uno splendido piano sequenza conclusivo, mentre coglie la libertà nella fuga dall’occhio della madre.