Il volto del mondo è cambiato da quell’ormai lontano anno 2000, in cui Jafar Panahi conquistò il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, con Il cerchio, dolente e rapsodico viaggio nell’Iran contemporaneo. Eppure, in Offside (portato a compimento nel 2006, ad un anno dalle vicende narrate, ma distribuito in Italia soltanto nel 2011), ultima opera firmata prima dell’incarcerazione, muta soltanto il tono (più lieve), e non lo sguardo del regista in un film dove, ancora una volta, è la rappresentazione delle esistenze sommerse di una serie di donne a diventare specchio della condizione di un paese ancorato ad una tragica immutabilità. Se stavolta, a fare da sfondo, è un evento preciso della storia recente dell’Iran (la storica partita, dell’8 giugno 2005, contro il Barhain, per la qualificazione ai mondiali di calcio, poi disputati in Germania l’anno seguente), Panahi non rinuncia del tutto, per quanto ciò accada in modo meno evidente rispetto a Il cerchio, a moltiplicare il punto di vista, lasciando che i personaggi entrino ed escano dalla nostra visuale, quasi che la macchina da presa abdicasse alla pretesa di offrire una visione complessiva e si riducesse a compiere brevi e fuggevoli incursioni, seguendo soltanto per un tratto il loro tortuoso girovagare (delle varie figure non conosciamo nemmeno i nomi). Non c’è retorica nella mano di Panahi che, con lo stile diretto, neorealistico, che lo accompagna fin da Il palloncino bianco, compone un affresco di piccole storie, che si mescolano e si sfiorano per un istante, senza svelarci nulla del passato e del futuro di quelle vite che scorrono sullo schermo, attraverso un meccanismo di immersione in presa diretta, che ce le rende, al tempo stesso, così estranee e così vicine. Stavolta capitiamo in un assolato pomeriggio di giugno, su un pullman sovraccarico di tifosi diretti verso lo stadio di Teheran che, di lì a poche ore, avrebbe ospitato lo storico incontro con il Bahrain. Non tutti però si sono uniti ai cori che fanno da immancabile sottofondo al viaggio: in un angolo se ne sta una ragazzina silenziosa, con lo sguardo nervoso di chi teme di essere scoperto. In Iran una legge vieta alle donne di assistere alle manifestazioni sportive maschili (e sarebbe vano cercare una logica nella proibizione, da cui, del resto, qualunque straniera risulta automaticamente esentata) e l’unico modo per non perdersi la partita sembra quello di eludere i rigidi controlli all’ingresso, approfittando di qualsiasi occasione si presenti. Naturalmente una donna può sperare di ottenere un biglietto soltanto se è disposta ad acquistarlo, di nascosto, ad un prezzo notevolmente superiore al dovuto, mentre, qualora venga scoperta, non può certo appellarsi alla clemenza delle forze dell’ordine. Se praticamente qualunque uomo in circolazione può assicurarsi un posto per la partita senza troppe difficoltà, le donne sono considerate il pericolo maggiore per il regolare svolgersi degli eventi sportivi. Tra chi si traveste da soldato e chi si accorcia i capelli, soltanto le più navigate ogni tanto riescono ad ingannare le guardie, mentre le più sfortunate sono semplicemente rinchiuse in un recinto, sorvegliate a vista da una combriccola di soldati svogliati e trattenute fino a sera, in attesa di essere trasferite in questura. La parte centrale di Offside si svolge quasi tutta in questo recinto, angolo dimenticato di mondo, che si anima inaspettatamente attraverso i racconti, i sorrisi e le lacrime delle ragazze rinchiuse. La partita scorre ormai sullo sfondo e dagli spalti arrivano le urla del pubblico, mentre un guardiano si presta ad inscenare una cronaca improvvisata e le ragazze, amareggiate soltanto per aver perso l’incontro (una di loro si concede perfino una breve fuga, per poi tornare spontaneamente dalle compagne, fra lo stupore generale, dopo una manciata di minuti passati in tribuna), continuano ad entusiasmarsi per le gesta dei loro beniamini, fino ad esplodere di gioia per la vittoria finale. Genialmente Panahi apre qualche spiraglio, che prende forma nel dialogo fra le giovani e i loro guardiani, ragazzi non molto più vecchi, prepotenti e fragili al tempo stesso, costretti ad un servizio militare lungo e snervante, ma in fondo desiderosi soltanto di tornare alle proprie case. Quando arriva la sera, l’entusiasmo cede spazio a qualche vago timore e le ragazze vengono caricate su un altro sgangherato pulmino che le porterà, forse, fino a quella prigione che, come accadeva ne Il cerchio, sembra rappresentare il punto terminale di ogni speranza. Eppure, stavolta, il cerchio non si chiude: Panahi si ferma prima, interrompe il viaggio con un finale inaspettatamente aperto, in cui le donne si perdono nell’aria di festa, escono di scena, quasi dissolvendosi nella sera di Teheran.
Offside di Jafar Panahi: la recensione
Panahi con Offside non rinuncia del tutto a moltiplicare il punto di vista, lasciando che i personaggi entrino ed escano dalla nostra visuale, quasi che la macchina da presa abdicasse alla pretesa di offrire una visione complessiva e si riducesse a compiere brevi e fuggevoli incursioni, la recensione