venerdì, Novembre 22, 2024

Paris-Manhattan di Sophie Lellouche, la recensione e l’incontro con la regista

Avete mai avuto a che fare con una farmacista cinefila?” recita lo slogan che campeggia sulla locandina di Paris-Manhattan. Dopo aver visto il film, la nostra risposta è: la eviteremo con cautela. Questa fasulla commediola, infatti, ha per protagonista un’irritante ragazza che si ostina a non voler crescere, a trincerarsi dietro uno sterile e ombelicale culto per Woody Allen, nume tutelare evocato per mezzo di un poster appeso in cameretta – con relativa scimmiottatura di quanto accadeva in Provaci ancora, Sam (Herbert Ross, 1972), in cui il cineasta e attore newyorchese dialogava col fantasma di Bogey – al fine di raccogliere avidamente massime sull’amore e sulla vita. Una Alice in Woodyland (interpretata da Alice Taglioni, bellezza altera e prorompente, in un ruolo che non le si addice per nulla) che, invischiata nei suoi puerili vaneggiamenti tardo-adolescenziali, ha un’esile e alquanto confusa, va da sé, cognizione della realtà. Dietro il bancone della farmacia, poi, ha una ricetta tutta sua per i depressi: niente psicofarmaci, per carità, solo dvd di Allen. Single cronica oltre la soglia dei trenta e impelagata in un nido di famigliari iperprotettivi e petulanti, viene incessantemente spinta a trovarsi un compagno, anche se gli uomini che incontra si rivelano puntualmente una delusione. Nel frattempo, un buffo e nevrotico spasimante (l’attore e cantante Patrick Bruel), specializzato in sistemi d’allarme, la tampina tenacemente finché lei, dopo iniziali tentennamenti, ne ricambierà le attenzioni, complice anche la benedizione di un padrino illustre…

L’esordiente Sophie Lellouche cerca disperatamente (e feticisticamente)  riparo dietro il genio di Allen nel tentativo di celare, mediante massicci infarcimenti citazionistici, il vuoto congenito di un soggetto originariamente debole nelle intenzioni, sviluppato in una sceneggiatura minata da falle e clamorose incongruenze e messo per immagini con una regia piuttosto dilettantesca (da annali del trash la scena della rapina alla farmacia). Impresa improba per il cast che, nonostante l’ammirevole contributo, non riesce infine a scongiurare il naufragio del film.

Fosse stato destinato alla tv, fra carabinieri, preti, papi e santi che brulicano nelle fiction di casa nostra, non avrebbe suscitato gli stessi imbarazzi che provoca sul grande schermo e dunque ci si chiede, o meglio si chiede ai distributori: che bisogno c’era d’importare un prodotto così dozzinale, considerate le straordinarie pellicole che può offrire la cinematografia francese odierna?

Proponiamo qui un resoconto dell’incontro con la regista, le cui risposte, in diversi frangenti (si veda il passo in cui spiega la genesi del soggetto), avvalorano le perplessità espresse nella recensione.

Nel film c’è una grande quantità di citazioni alleniane. Come vi siete accordati con l’autore per l’utilizzo di tutti questi materiali?
Sophie Lellouche: Woody Allen ci ha dato subito il suo appoggio morale per l’utilizzo degli estratti dei suoi film, ma purtroppo non possiede più i diritti di molti di essi, perciò la mia produzione si è incaricata di contattare le varie case di produzione e a quel punto si è trattato soltanto di un accordo squisitamente economico. Per quanto riguarda il suo cameo, è stata una concessione del tutto gratuita, prestata in modo amichevole. Si è anche reso disponibile a registrare ex novo le tracce audio degli estratti, dato che negli originali la qualità non era ottimale.

In che misura il film attinge dalla sua vita personale?
S. L.: Preciso subito che non è un film autobiografico, anche se molto personale. Io stessa, quando ho deciso di diventare regista, mi sono sentita schiacciata da modelli molto forti di registi importanti, tra cui appunto Woody Allen. Andavo spesso al cinema e ho a lungo preferito la vita che vivevo sullo schermo a quella reale. E’ stato da lì che ho avuto l’idea per questo dialogo di Alice con il poster di Allen. Un’idea che ha molto a che vedere con La rosa purpurea del Cairo e che nasce quando non percepiamo più alcuna distanza tra la realtà e l’immaginazione. Quando ero diciassettenne, come Alice all’inizio del film, il mio sogno era di diventare amica di Allen, di potergli chiedere consigli sulla vita, che diventasse la mia guida.

In questo film ci sono molti brani jazz già inseriti nei film di Allen e inoltre uno dei due protagonisti è un cantante molto popolare in Francia  (Patrick Bruel). Qual è il suo rapporto con la musica?
S.L.: Attraverso il cinema di Woody Allen ho scoperto un universo ricco non solo di musica, ma di letteratura, filosofia e molto altro. Grazie a lui ho scoperto la letteratura russa, ho scoperto Shakespeare, Keats. Non sono, però, un’appassionata di musica jazz.

Su che base ha scelto i due attori protagonisti?
S.L.: Innanzitutto c’era il forte desiderio di lavorare con Alice e Patrick, dei quali ho amato molto tutte le interpretazioni. Nel caso di Alice, vedendola recitare in altri film, quel che mi ha colpito di più, oltre ovviamente alla bellezza evidente, è stata l’energia che riesce a sprigionare: una cosa imprescindibile per una commedia. Una volta sul set, mi sono resa conto della straordinaria somiglianza fra Alice e la Mariel Hemingway di Manhattan.

La collaborazione di Woody Allen ha in qualche modo reso più facile il reperimento di finanziamenti?
S.L.: E’ sempre molto difficile debuttare nel cinema in Francia. Quel che ci ha aiutato di più è stata la presenza nel cast di Alice e Patrick. Quando loro hanno accettato, i produttori hanno potuto trovare ulteriori finanziamenti, in particolare dalle emittenti televisive. La presenza di Allen, paradossalmente, ci ha penalizzato, perché in Francia lo identificano come un “artista intellettuale” e quindi molti finanziatori vedevano la cosa come un limite per una commedia romantica, pensavano già a possibili implicazioni esistenziali del film, non riuscivano bene a collocarlo fra i generi. In molti dei paesi in cui è stato venduto, tra cui Russia, Polonia, Australia, è stata tolta l’immagine di Woody Allen dalla locandina perché i distributori lo ritenevano un deterrente per il pubblico.

Quali sono i vostri progetti futuri?
Alice Taglioni: Dopo il film di Sophie, ne ho girato altri tre. Il primo è Cookie, una commedia amara con due sorelle, una interpretata da me e l’altra da Virginie Efira, che affrontano un lutto. Gli altri due sono Zaytoun e il poliziesco Colt 45. Dei film che mi hanno permesso di cimentarmi con diversi registri.

S.L..: Per ora sto scrivendo.

Quali sono i suoi registi italiani preferiti?
S.L.: Non conosco molto i registi italiani contemporanei, a parte Nanni Moretti che frequenta spesso la commedia ma di cui ho amato anche i film drammatici. E poi Ettore Scola, Fellini. Il film che sto scrivendo adesso si ispira alla poesia e alla libertà stilistica di Amarcord. Su Ettore Scola, in particolare, ho un aneddoto: lo stesso giorno in cui ho incontrato Woody Allen, il 25 dicembre di qualche anno fa, avevo visto un’intervista a Scola tra gli extra del dvd di C’eravamo tanto amati, in cui raccontava della sua richiesta a Fellini di fare un cameo nel proprio film. Incredibilmente due ore dopo ho incontrato per caso Woody Allen in una strada di Parigi. Ero davvero sicura che avrebbe accettato: Scola mi ha dato la spinta per credere che tutto sia possibile nella vita.

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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