Nella galleria di mostri scolpiti dalla luce irreale e dai colori “tecnici” di Ed Lachman a un certo punto l’occhio di Todd Solondz indugia su una sfocatura artificiale, quella di un corpo la cui sagoma è disegnata da un blurring misterioso che ci capita di vedere più volte in mezzo ad un giardino. Viene in mente un’altra sfocatura, quella di Julianne More in Safe di Todd Haynes; in quel caso l’identità di una donna precipita nell’abisso dell’evanescenza, è il segno di una malattia indicibile mostrata con una tensione insopportabile nel passaggio da interni borghesi e asettici verso l’annullamento di quegli stessi spazi nel vuoto di un’immagine bianca, catturata da un occhio telescopico, schiacciata sullo sfondo asettico e vuoto di una clinica-lager. L’america di Solondz non è troppo diversa dagli incubi filmati da Haynes, cambia l’occhio e la distanza dai corpi, scrutati in modo apparentemente intimo, in realtà fissati in uno spazio immutabile. Il cinismo di Solondz non è quindi una questione di “script”, nonostante il motto di spirito crudele e spietato assorba i sensi dello spettatore nella direzione delle parole, nonostante il gioco del sequel permetta ai fan di Happiness di trovare alcune connessioni narrative. La crudeltà di Solondz si manifesta nel contrasto tra questi volti mostruosi e un set dai colori accecanti; interni ed esterni si confondono nell’esposizione di una visibilità estrema ed iperrealista; la sospensione del tempo, quotidiana e contemporaneamente minacciosa che emerge dai racconti più taglienti di Raymond Carver sembra sovresposta alla crudeltà di un decor virtuale, un acquario dalla persistenza digitale dove i personaggi sono imprigionati in una rappresentazione del falso, non potendo esprimersi ne muoversi diversamente. La sfocatura che vediamo allora, non è un’incertezza dell’occhio, una rifrazione, un riflesso che rivela la presenza dell’immagine filmica, è un involucro gelido e crudele entro il quale si dibattte l’identità del piccolo Timmy; quando questa esce dall’incertezza in un momento di crescita traumatica per il bambino, il corpo di luce si separa da quello “reale”, Timmy diventa visibile e la sfocatura rimane al suo posto, come un costume. Il cinema di Solondz non permette di uscire, non offre nessuno scampo, è l’immagine restituita da un occhio vitreo, una palla di cristallo piena di insetti imprigionati nell’attesa irreale di una guerra invisibile e semprepresente.