Lo spettacolo del grande freddo in era post moderna può così andare in scena. Vincent (Benoit Magimel),tenero e lacerato dalla sua omosessualità repressa, Max (François Cluzet), nevrotico e indisponente, Marie (Marion Cotillard) splendida nel suo pervicace sforzo di autodistruzione, e ancora Eric (Gilles Lellouch), Antoine (Laurent Lafitte), Juliette (Anne Marivin), sono tutti portatori di nevrosi più o meno evidenti. Uniti fin dalla stagione degli studi e della prima giovinezza, non si sono accorti di quanto il tempo li ha cambiati e quanto poco hanno fatto per prenderne coscienza. Capita allora che un giorno volino via quei piccoli fazzoletti, les petits mouchoirs, stesi a coprire verità taciute e piccole bugie dette, e si scopra con grande sconcerto quanto sia corroso il tessuto di legami e sentimenti su cui ci si appoggiava inerti, convinti che nulla mai cambiasse. Ipocrisia o solo leggerezza, egoismo o forse solo abitudine alla disattenzione, piccole storie di una vita che si attraversa come ciechi, incapaci di ascoltare, inetti a capirsi. Girato in un tempo brevissimo, una sceneggiatura scritta di getto nell’estate del 2008, con quell’ urgenza di mettersi a nudo che a volte costringe ad accantonare tutto il resto, Guillaume Canet ha fatto spazio a questo film, suo terzo lungometraggio da regista, incuneandolo fra lavori già iniziati.
E’ nata così una personalissima riflessione sul senso della vita, sui sentimenti che ci legano agli altri e su quello che ci allontana da loro. Nel pieno di una crisi esplosa dopo anni di lavoro troppo intenso e totalizzante, in precario equilibrio su quel crinale che impone un freno e tante domande, Canet ha proiettato in quel gruppo di amici in vacanza estiva a Cap Ferret un modello di esistenza fortemente problematico sotto il velo leggero di un’ apparente normalità. Tensioni scoperte o sottintese, piccoli compromessi per far tacere la coscienza (la degenza di Ludo in ospedale dovrebbe essere lunga, dunque ci sarà tempo per stargli vicino dopo le vacanze!) spensieratezza di facciata che naufraga al primo soffio di burrasca, verità nascoste che premono senza esplodere, e si traducono in un velo di tristezza. Un campionario di vite in corso d’opera, riprese in quella fascia d’età che non consente più la leggerezza un po’ incosciente della giovinezza ma non è ancora approdata al disincantato equilibrio della piena maturità. La vita ne ha fatto individui apparentemente aperti e solidali, in realtà chiusi nelle proprie gabbie, e l’ennesima vacanza estiva, rituale collettivo che si perpetua nonostante l’agonia dell’amico, questa volta é la loro cartina di tornasole. La spensieratezza di Ludo che, come loro, credeva che nulla dovesse mai cambiare, si é scontrata col suo destino all’uscita della discoteca. Il lungo piano sequenza iniziale lo ha accompagnato fino a quel tragico incrocio, ma già un attimo prima del crash, fra balli, musica e beveraggi, il suo sguardo si era come smarrito e aveva fissato un punto vuoto davanti a sé. In equilibrio fra l’inizio, che prefigura risvolti tragici, e la scena finale che un po’ di commozione la pretende ma è subito depurata da derive patetiche dalla voce asciutta e tesa di Nina Simone che canta My Way, trascorre la vacanza in un clima che nulla ha di tragico, è piuttosto una commedia amara, in cui si ride anche, perché può capitare di essere allegri mentre un amico sta morendo. Del male di vivere ognuno sta vivendo il proprio piccolo segmento, ma nessuno sembra rendersene conto. Canet non giudica né condanna, porta solo a galla con maestria sottili dinamiche interpersonali, la lunga durata del film e il suo impianto teatrale servono a dar forma ai personaggi senza forzature, mentre tranche de vie fin troppo simili alla vita reale di tutti creano immediato feed back con il pubblico. Questo Grande Freddo thirty years later non ha più le radici temerarie e ideali dei quarantenni di Kasdan, reduci dal Vietnam o dalla lotta “dura senza paura”. I nuovi quasi quarantenni di Canet sono come dissanguati. Il loro non é il grande freddo dopo la grande fiammata, é il grande vuoto di una vita spesa a inventare piccole bugie, soprattutto a sé stessi. Non ci sono suicidi in fondo alla loro strada, solo un fatale scontro all’uscita dalla discoteca. Lì si ferma la corsa in moto, fra le strade vuote di una città all’alba di un giorno qualunque, mentre si aspetta una vacanza al mare dove bisogna andare a tutti i costi, portandosi dietro la propria vita così com’é. You Can’t Always Get What You Want cantava Jagger al tempo del Grande freddo, ed era proprio così, la storia fece il suo corso e la grande delusione crebbe. Ora sulla scena ci sono figli di quella delusione, Canet appartiene al loro mondo e ha saputo guardarci dentro, ha scelto gli attori nella sua cerchia personale di amici, li ha posti in luoghi che hanno la familiarità dei luoghi in cui si è vissuti veramente ed ha istruito un processo intorno al capo d’accusa centrale, l’individualismo esasperato che, ancor prima di accorgercene, ci avvolge in corazze impenetrabili. E se, sosteneva Artaud, “Il cinema è essenzialmente il tramite rivelatore di tutta una vita occulta con la quale ci mette direttamente in relazione. Ma questa vita occulta bisogna saperla indovinare“, sollevare les petits mouchoirs della vita di tutti i giorni può essere un buon modo per farlo.