domenica, Dicembre 22, 2024

Pina di Wim Wenders: la danza tra Wanderung e 3D

Ambientazioni postmoderne / suburbane; una forte analisi antropologica dei tipi rappresentati; il viaggio, inteso in tutte le sue forme, mirato alla scoperta o alla distruzione del sé. L’essenza di Pina è infatti la danza come fisicità e velocità, un’interpretazione totale del movimento, che Wenders rappresenta a metà tra la messinscena e il tableau vivant

Pina è un omaggio di Wim Wenders alla figura e al lavoro della coreografa tedesca Pina Bausch, amica intima del regista, scomparsa nel 2009. Il film è in sostanza un documentario sul Tanztheather, lo stile creato proprio dalla Bausch nel tentativo di rompere la fissità della danza classica. Per realizzarlo Wenders si avvale di filmati di archivio e soprattutto di vere e proprie riproposizioni delle piéces più famose della coreografa (fra tutte, Café Müller). Ma Pina, com’è logico attendersi, non è solo questo. Innanzitutto è un commiato doloroso e sentito alla Bausch, dal momento che l’artista è venuta a mancare pochi giorni prima delle riprese programmate con Wenders: questi, mantenendo fede allo stile documentaristico già esperito in Buena Vista Social Club (e in questo agli antipodi rispetto alle ‘speculazioni invasive’ di Herzog), lascia la parola a allievi e compagni della Bausch, riuscendo a rompere il filtro affettivo che notoriamente permea l’intimità delle compagnie di danza. Ma c’è dell’altro, come detto, e cioè la circostanza che vede come autore di questo documentario un regista come Wenders. Annoverato ormai in quella ristretta cerchia di entità superiori del cinema, l’orizzonte d’aspettativa degli spettatori di Wenders è riassunto di regola da una serie di criteri stilistici e tematici ben codificati: ambientazioni postmoderne / suburbane; una forte analisi antropologica dei tipi rappresentati; il viaggio, inteso in tutte le sue forme, mirato alla scoperta o alla distruzione del sé. Il recente Palermo Shooting (2008) è un ottimo esempio della sistematicità di Wenders, la cui pecca maggiore è riscontrabile nel fatto che l’eccessiva verbosità delle trame porta spesso alla mancanza di focalizzazione finale. Questo documentario, Pina, risulta tuttavia singolare se si analizza il concetto wendersiano di Wanderung – il viaggio romantico. Ciò che solitamente il regista cerca di riesumare dall’intimità dei suoi personaggi, è qui palesato sin da subito. L’essenza del documentario è infatti la danza come fisicità e velocità, un’interpretazione totale del movimento, che Wenders rappresenta a metà tra la messinscena e il tableau vivant. I ballerini stessi esprimono il messaggio con il corpo e le parole. Guidati dall’insegnamento della Bausch, danzano per superare se stessi, incuranti del significato ultimo delle cose, semplicemente vivi. Il mondo all’interno del quale si muovono, pur se avviluppato in un incessante e deformante ammodernamento, trova sempre un congiungimento finale nella natura. Il documentario, in questo senso, si stacca dalla produzione canonica di Wenders e assume le caratteristiche dell’antiviaggio. Il regista non va alla ricerca del significato dei passi e dei movimenti, ma si limita a rappresentare, integrando perfettamente la struttura della danza con la mobilità della macchina da presa. Nel contesto narrativo che Wenders riesce così ad ampliare, si inserisce poi efficacemente un elemento atipico, ossia la tecnica 3D [per avere una migliore idea sulle capacità e il futuro del cinema 3D, è possibile leggere l’approfondimento sul premio Persol all’ultimo Festival di Venezia]. Il film è infatti uscito in diverse sale nel formato che ormai risulta tanto di moda. Ma se in genere il 3D è sinonimo di operazioni commerciali, in Pina Wenders lo sfrutta da un punto di vista strutturale. Il 3D implica sul piano extradiegetico l’avvicinamento dello spettatore alle immagini, e quindi una maggiore focalizzazione; sul piano intradiegetico, invece, permette agli spazi di rompere la limitatezza della celluloide e alla storia di svilupparsi in maniera verosimile. Wenders crea in questa maniera un fondo emotivo funzionale alla forza espressiva delle immagini, all’interno del quale sia lui che i personaggi, prima ancora degli spettatori, finiscono per perdersi nella placida illusione dei ricordi.

Davide Minotti
Davide Minotti
Davide Minotti nasce a Frosinone nel 1989. Dopo un'esperienza alla John Cabot University di Roma, si occupa ora di Germanistica e Scandinavistica tra l'Università degli Studi di Firenze e la Rheinische-Friedrich-Wilhelms-Universität di Bonn, dove vive. Appassionato di letteratura e cinema, spera che un giorno questi interessi possano diventare qualcosa di più concreto. Nel frattempo scrive e progetta cortometraggi nel perenne tentativo di realizzarli.

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