domenica, Dicembre 22, 2024

Polisse di Maïwenn Le Besco: la recensione

Il realismo della rappresentazione che porta sulla scena  tranche de vie  delle Brigade de Protection des Mineurs (BPM), occupate in Francia, come altrove con altri nomi, ad intervenire su casi di abuso infantile in famiglia e fuori, é senz’altro una buona scelta della regista, Maïwenn Le Besco, ex top model, ex moglie –bambina di Luc Besson, ex bambina a disagio fra genitori non adeguati al loro ruolo.

Di Maïwenn sappiamo molto dai rotocalchi, il Premio della Giuria a Cannes l’ha messa in ulteriore evidenza e lei stessa si ritaglia una parte nel film. E’ Melissa, la fotografa sposata col nostro Scamarcio (particina insignificante, da buon italiano porterà la pizza al festoso raduno della brigata, ospite della moglie a casa sua, e farà la parte del marito  indifferente e liberal, nient’affatto scontento che la moglie stia imbastendo una love story col poliziotto appena conosciuto).

Meno buone risultano le incursioni nel privato dei poliziotti, c’è qualche deriva sentimentale che, più che dispiacere per sé stessa (la sobrietà dei toni va riconosciuta, nulla di troppo) sembra un collante per tenere insieme i momenti forti dell’attività poliziesca, quasi un bisogno di annettere un impianto narrativo a sfondo consolatorio alla brutale verità che si rovescia sulla scena in rapidi flash. Si avverte una scelta stilistica ancora non del tutto compiuta e forte nel lavoro della regista, pertanto qualcosa stride, uno o due tagli avrebbero evitato una durata eccessiva, l’impianto d’insieme ne avrebbe guadagnato senza, peraltro, dover rinunciare ad una drammaturgia avvincente.

Gli spunti ci sono, e ottimi, al di là dell’ovvia pregnanza della materia prima trattata, l’infanzia violata e quel che ne consegue.
Ognuno di quei frammenti, prese dirette sull’orrore senza ritorno, è brivido, ghiaccio sulla schiena.

Merito di Le Besco è senz’altro aver evitato il docu-film, il film/verità, l’approccio psicanalitico che in una centrale di Polizia sarebbe dura cercare, la facile commozione a-posteriori rispetto a scenari ogni giorno sotto gli occhi di tutti.

Buona anche la determinazione nell’andare contro stereotipi su poliziotti cattivi e poliziotti buoni.

Questi sono poliziotti qualsiasi, e devono fare cose che ripugnerebbero a chiunque, meglio sarebbe affrontare rapine a mano armata o gang di malavitosi.
Quel che fanno devono perfino farlo con quel che passa il convento, nella Francia di Sarkozy o nell’Italia di Berlusconi e Monti tutto il mondo è paese, e il padre molestatore, ma di ottima estrazione sociale, gode di qualche garanzia in più, il negretto è separato dalla madre perché nessuna struttura ricettiva ha posti per due, e il suo lamento roco e disperato è il momento più doloroso del film.

Ritmo, tensione, stacchi di scena e montaggio veloce, dialoghi ben scritti e recitati con grande bravura da attori egregiamente doppiati, quel filo di isteria collettiva che dà luogo a urla, scontri tra colleghi, tra capo e dipendenti, poliziotti e indagati, tutto è giustificato, chiaro, inevitabile e comprensibile.

Ben messa perfino la risata, contagiosa e inarrestabile, nella scena della ragazzina che, pur di riavere lo smartphone, dice di non aver avuto problemi a succhiarlo ai compagni del branco che l’hanno incastrata. Si parla lo slang della vita quotidiana, messa al servizio di una causa che una volta si sarebbe detta “nobile”, oggi è agghiacciante routine che solo la personale dose di umanità salva.

E allora si vorrebbe guardare a questo gruppetto che lavora anche di domenica, che ha problemi di vario genere nel proprio privato ma li mette dietro le spalle (salvo arrivare a soluzioni drastiche, come nel finale), che lavora in team finchè non scoppiano i nervi, si vorrebbe guardarli, si diceva, come i nuovi angeli. Ma non si può, la regia non lo consente, Maïwenn/Melissa continua a fotografare senza scopo, il suo réportage sembra non interessare neanche lei, che se ne sta in disparte, discreta e silenziosa. Certo non cambierà nulla in quella sfera del “disamore” da cui emergono tragedie senza parole né limiti, solo autodistruzione, come annota Bernard Lambert:

Il disamore è un sistema distruttivo che in certe famiglie si abbatte su un bambino e vorrebbe farlo morire. Non si tratta di una semplice mancanza d’amore, ma dell’organizzazione, al posto e in luogo dell’amore, di una violenza costante, che il bambino non solo subisce, ma interiorizza, al punto che si arriva a un doppio ingranaggio con la vittima, che finisce con il dare il cambio alla violenza esercitata contro di lui per mezzo di comportamenti autodistruttivi.”

E’ la “comunicazione perversa” quella che va in scena, la violazione dei confini del proprio corpo, forme degenerative della cultura occidentale che in una stazione di “Polisse” bisogna schedare, archiviare al computer, mentre si tenta con mezzi artigianali di far parlare vittime e carnefici.

La psicoterapia della Gestalt  è ancora tutta da inventare lì dove le operazioni devono svolgersi in orario d’ufficio, un po’ come mettere l’aggeggio per timbrare il cartellino sulla porta dell’Inferno, al posto del “Per me si va nella città dolente…ecc.”.

Cosa ne sarà di quegli esseri umani indifesi? Cosa ha prodotto tutto questo? Che bambini furono un giorno quegli adulti? Sono le domande che restano nella mente chi vede il film.
Onore dunque alla brava (e un tantino troppo triste) Maïwenn, qualche scivolatina nel sentimentale  stile soap-opera si può perdonare, non consola nessuno.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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