Nasser-Alì Khan, protagonista di Poulet aux prunes, é Mathieu Amalric. Viso triangolare, sguardo sorridente e un po’ beffardo, occhi tondi tondi che schizzano fuori dalle orbite, é un perfetto incrocio genetico di tratti polacchi (la madre) e francesi (il padre). Qui fa l’iraniano, e la scelta dei registi (Paronnaud e Satrapi in felice sinergia) é tanto stravagante quanto geniale, si tratta di una fiaba, e, anche se raccontata al cinema e non “davanti al focolare”, ne ha tutta la visionaria ed eccentrica realtà. Tra illusionismi onirici alla Méliès e brevissimi fermo-immagine degni del mondo sottosopra di Chagall, lo scenario fantasy sfuma verso cupi angoli di un paese da cui sembra bandita ogni forma di felicità. Iran 1958. Tra fantasia e realtà scorre la triste storia del violinista innamorato che decise di lasciarsi morire nella sua stanza, d’inverno. C’era qualcuno, non c’era nessuno…é così che iniziano le fiabe persiane. Era l’autunno del 1958, io mi trovavo a Tehran di passaggio quando incontrai un certo Nasser Alì di cui vi racconterò la storia…
La voice over apre il racconto e i personaggi si materializzano dalla graphic novel di Marjane Satrapi. Si parte dal finale, tra flashback e flash-forward si va avanti con le tipiche oscillazioni della memoria, e la storia é ricostruita in otto quadri, gli ultimi otto giorni di Nasser. Si torna quindi da dove si era partiti: la sua tomba nel cimitero coperto di neve. Un violino, due innamorati, il mondo intorno a loro che li tallona spietato. Doveri da compiere, tradizioni da rispettare, ruoli sociali e famigliari da non scardinare. C’é un paese dove si nasce e si muore, ma é difficile viverci. C’é il respiro libero della musica che non trova più spazio e tace. Il violino che per vent’anni, in ogni nota, aveva suonato l’amore impossibile di Nasser per la dolce Irâne (Golshifteh Farahani) ora é una carcassa sfondata. L’ha scaraventato a terra, non potendone più di lui, della sua musica e dei suoi sogni, Faringuisse (Maria De Medeiros), la moglie con gli occhialoni da prof. di matematica, sposata senza amore perché imposta da Parvine (Isabella Rossellini) madre/matrigna a cui era impossibile opporsi. Un fatale incontro chiastico di destini, fra Irâne e Nasser, per lei c’é stato un padre/padrone a decidere la sua vita. La felicità loro due sapevano cos’ era, ma forse per questo é fuggita lontano.
Solo la musica sul meraviglioso Stradivari che il maestro gli aveva regalato ha continuato a svegliare il tempo che si ostinava a morire. Tornato in patria da tournées che l’hanno consacrato grande violinista, Nasser ha trovato un paese immemore del suo splendido passato, ha smarrito il suo prestigio in povere scuole di musica e i suoi anni in doveri inspiegabili, tra marmocchi urlanti e cene litigiose. Dunque, che senso ha vivere senza la sua musica? Comprare un altro violino? Assurdo.Tentare di ricostruire il sogno con Irâne? Impossibile, ci sono cose che non accadono due volte. Ora la dolce Irâne è una nonna che ha dovuto fingere di non risconoscere Nasser per strada, troppa vita é passata.
Si pensa piuttosto a morire. La coppia Paronnaud / Satrapi sa come usare la leggerezza. Le ipotesi di Nasser su come morire partono dal grande modello socratico e, scendendo giù giù fino alla scelta nichilista di non dare più niente al proprio corpo che lo tenga in vita, giocano con eleganza la carta dell’umorismo sottile. Toni invece assolutamente divertiti assume la satira di costume nel siparietto americano, dove la fantasia di Nasser colloca il futuro del figlio minore, piccola peste tanto uguale alla madre. Otto giorni chiuso nella sua stanza, ora lui aspetta, una sigaretta dopo l’altra, di diventare puro respiro, come la sua musica.
Tehran 1958, le fiabe raccontano, spesso, meglio della storia. Satrapi l’aveva già fatto nel 2007 con Persepolis, graphic novel candidata all’Oscar e vincitrice del “Premio della Giuria” al Festival di Cannes. Anche un paese può cercare una fuga nella morte, come Nasser Alì, il violinista innamorato di Irâne, della musica e della vita. Una cosa alla volta gli hanno tolto tutto. Cosa restava, se non morire? E perché non dare un titolo assurdo, brutto, uno sberleffo culinario, che sa di vapori e odori di cucina, mentre un archetto scivola sul ponticello e salgono note, musica, aria pura? Collocare “l’ordinario nello straordinario“, aveva detto Godard del cinema di Méliès. Azraël, l’Angelo della Morte, incubo bizzarro e spaventoso di Nasser a pochi passi dalla morte, un flash da Il fantasma dell’opera di Rupert Julian (1925), qualche pezzo dai Rubaiyat di Omar Khayyam, l’Iran oggi, Shahrazàd ieri. L’ordinario nello straordinario, o, forse, lo straordinario nell’ordinario, oggi.