Nel casellario della camaleontica e prolifica carriera di François Ozon, Potiche si va a collocare accanto alla divertita ed elegante leggerezza di Otto Donne e Un Mistero, con il quale condivide anche la celebrazione registica di veri e propri monumenti attoriali del cinema d’oltralpe: a 67 anni Catherine Deneuve è un ciclone di premura materna e orgogliosa sensualità, mentre Depardieu la spalleggia nel ruolo di una vita di sanguigno paladino popolare. Nel ’77, la trascurata e aristocratica moglie di un bieco industrialotto approfitta di un suo allontanamento in crociera dallo stress degli scioperi e dei sindacati, per prendere in mano la fabbrica di ombrelli e dimostrare di non essere solo una bella statuina (potiche in francese). Nel giro di pochi mesi capovolgerà le sorti della ditta, della politica locale, delle vite dei figli e del sindaco ed ex amante comunista. La consueta esattezza formale di Ozon si declina in un tocco garbatissimo e colorato, immerso in una dimensione smaccatamente vintage (lo splitscreen in cornice arrotondata, ad esempio) che conferisce ulteriore ironia e leggerezza alla trama.
La sceneggiatura, dialogatissima e scoppiettante, nasconde il suo impianto teatrale sotto la naturalezza di una regia estremamente precisa e mai banale e alla estrema cura e varietà di luci, costumi e soluzioni di decòr. Gli anni settanta diventano una dimensione fiabesca dove ambientare una vicenda impregnata di temi attualissimi (maschilismo e sciovinismo politico, delocalizzazioni industriali) che proprio per questo vengono fortemente ridicolizzati nelle loro accezioni presenti. Una commedia caramellata, sorridente e piacevolmente autocompiaciuta, che si conclude con un vero e proprio inno alla forza della femminilità. Senza eccessive profondità, un vero sfizio per gli occhi e una prova di altissima maestria artigianale, nella migliore delle accezioni.