Ci risiamo. Strilli in lontananza, rutti bestiali, inseguimenti subumani e il mondo intero va a puttane nel giro di poche ore. Trattasi dell’epidemia più affascinante e irreversibile che il cinema di genere continua a proporci dal 1968, con una meritoria accelerazione impressa dal nuovo millennio. Zombi. Ovvero la realizzazione più probabile della favola della vita eterna, metafora perfetta della fine che la nostra società sta facendo. Poco importa quanto e come si resista: prima o poi qualcuno – tua madre, tuo fratello, tuo figlio – ti morde e se la folla non ti scarnifica subito il tuo destino è di proseguire la catena alimentare pappandoti tuo padre, tua sorella, tua figlia. La legge dei morti viventi è uguale per tutti.
A differenziare Rammbock dai film zombeschi a cui siamo abituati è l’ambientazione inedita: Berlino, per l’esattezza il condominio noto come Sendelbach-Höfe, a Kreuzberg 61. La rivoluzione europea del genere romeriano per eccellenza è cominciata nel 2002 con la Londra di 28 giorni dopo, e ha visto un capitolo di rara efficacia (e sublime crudeltà) ne La horde (2009) di Yannick Dahan e Benjamin Rocher, girato in un condominio “ballardiano” delle banlieues parigine. Pur essendo un’opera prima dal budget limitatissimo – che giustifica i sessanta minuti di durata e la rapidità delle scene di violenza – Rammbock azzarda l’introduzione di una nuova “regola del gioco” nello zombie-horror (che non riveliamo) e, pur facendo correre gli invasati, non deluderà i fan più esigenti del genere. Merito della sceneggiatura ben congegnata da Benjamin Hessler e della regia pulita di Marvin Kren, che non usa mai la camera a spalla come uno strumento di stordimento di massa.
La trama è presto detta: l’austriaco Michael (Michael Fuith) si reca a Berlino per restituire le chiavi di casa all’ex fidanzata Gabi (Anka Graczyk). L’uomo resta bloccato nel condominio insieme al giovane operaio Harper (Theo Trebs); i due organizzano la fuga coinvolgendo gli altri inquilini. Tra esili porte sbarrate alla meno peggio, scalette anguste, soffitte polverosi e arieti improvvisati che spalancano labirinti argentiani all’interno del vecchio edificio, Rammbock – letteralmente “voglia di saltar addosso / urtare / scopare” – regala un’ora di azione e tensione dal mezzodì all’alba del giorno che, anche nella Germania filmica, segna il passaggio dalla normalità a un regime di sopravvivenza senza futuro.
La fotografia di Moritz Schultheiß ci restituisce la Berlino tristanzuola e decadente dell’immaginario collettivo, e non manca l’inquadratura-clou della metropoli fumante mentre si propaga l’idiozia assassina collettiva. Ma il cuore del film è condominiale, e l’atmosfera dominante è intrisa dell’Unheimlich tipico del miglior Polanski, con i vicini inquadrati da balconi e finestre a mo’ di geroglifici umani impossibili da decifrare fino in fondo. Rammbock è un Kammerspiel sulla degenerazione dei rapporti sociali, una “finestra sulla corte” (il tipico Hof su cui danno quattro facciate di case popolari) dove tutti osservano tutti e la maggioranza degli occhi è bianca come nel Raimi degli esordi. Il film di Kren vince la sua scommessa rinunciando alle malie dello splatter beffardo. Sceglie invece una strada più difficile, che unisce l’azione pura alla pausa di riflessione e al pathos (con tanto di incontro zombi-sentimentale commentato da musica sacra) e termina come una fiaba minacciosa, quasi una Morte corre sul fiume in salsa apocalittica. La storica Filmgalerie 451, che si è occupata della distribuzione in sala della pellicola, ha curato anche l’edizione in dvd – da non perdere manco morti.