Due i film del veterano Yôjirô Takita proiettati alla prima edizione della Rassegna di Cinema Giapponese a Firenze, Okuribito, il film vincitore dell’oscar come miglior film straniero e la versione live action di Sanpei ragazzo pescatore, ultimo lungometraggio girato dal regista giapponese.
Due esempi di quanto sia vitale e ancora ricchissimo di segni il cinema giapponese contemporaneo anche quando si muove tra le regole più esplicite del mercato di massa; due piccole visioni Zen lontane anni luce dalla piattezza televisiva che ammorba certe produzioni europee a caccia di un’autorialità definita a partire da temi e contenuti. I due ultimi film di Yôjirô Takita sono illuminati da un leggero equilibrio che si manifesta come esperienza interiore della visione; in Okuribito la morte dissemina spaccature nell’assetto narrativo di una commedia di formazione così da trasformarla in un trauma visivo e visibile sull’idea di corpo e identità; sin dalla prima sequenza Takita inserisce delle interferenze perturbanti, un’idea di mutazione e decomposizione che difficilmente potremmo trovare in modo cosi radicale nelle intenzioni monolitiche di qualsiasi Blockbuster, oggetto di per se impenetrabile dall’esterno e dall’interno. La cultura visiva e anti-televisiva di Takita è al contrario chiarissima, persino una produzione come Sanpei si serve di una caratterizzazione marcata che non tradisce affatto le origini del progetto, accentuando in modo coraggioso quel confine tra visibile e invisibile che evidentemente fa ancora sorridere chi ormai è a digiuno di Cinema senza saperlo; l’uso visionario e consapevole del Green Screen materializza spazi che sono quasi sempre un altrove, non luoghi di una natura interiore adattata alle forme dello stupore infantile, troppo illuminate per piacere ad un pubblico dall’intelligenza ingombrante, le idee a volte pesano molto più delle immagini e portano verso il basso; un immaginario, quello del Sanpei di Takita che differisce da Okuribito solamente per il modo in cui la vita e la morte vengono messi in relazione con l’immagine. In entrambi i casi si tratta di due esperienze Cinematografiche preziose e allo stesso tempo “vendibili”; in un paese cattolico è ovviamente inaccettabile quasi quanto l’amoralità del notevole Tsutomu Yamazaki, capace di annullare il peso di tutte le religioni con una sola battuta, e ancora inaccettabile quasi quanto lo splendido incipit di Okuribito che nell’esplorare l’oscenità della morte con la mano di chi accompagna la vestizione di un caro estinto, ci sorprende con lo sberleffo di un cazzo “fuori posto”, uno slittamento del senso che è un po’ quell’idea di Cinema che difetta in modo tristemente naturale in buona parte delle nostre produzioni.