Due esempi di quanto sia vitale e ancora ricchissimo di segni il cinema giapponese contemporaneo anche quando si muove tra le regole più esplicite del mercato di massa; due piccole visioni Zen lontane anni luce dalla piattezza televisiva che ammorba certe produzioni europee a caccia di un’autorialità definita a partire da temi e contenuti. I due ultimi film di Yôjirô Takita sono illuminati da un leggero equilibrio che si manifesta come esperienza interiore della visione; in Okuribito la morte dissemina spaccature nell’assetto narrativo di una commedia di formazione così da trasformarla in un trauma visivo e visibile sull’idea di corpo e identità; sin dalla prima sequenza Takita inserisce delle interferenze perturbanti, un’idea di mutazione e decomposizione che difficilmente potremmo trovare in modo cosi radicale nelle intenzioni monolitiche di qualsiasi Blockbuster, oggetto di per se impenetrabile dall’esterno e dall’interno. La cultura visiva e anti-televisiva di Takita è al contrario chiarissima, persino una produzione come Sanpei si serve di una caratterizzazione marcata che non tradisce affatto le origini del progetto, accentuando in modo coraggioso quel confine tra visibile e invisibile che evidentemente fa ancora sorridere chi ormai è a digiuno di Cinema senza saperlo; l’uso visionario e consapevole del Green Screen materializza spazi che sono quasi